Una guerra civile – II parte

Riprendo dunque a raccontare il diario del mio antenato molisano Domenico Di Iorio, che si sofferma a narrare le dure condizioni che venivano imposte ai prigionieri borbonici.
In carcere mangiavamo male, in genere pane biscottato ammuffito e una minestra di verdura puzzolente e verminosa; ci veniva data una razione di acqua sporca una volta al giorno; avevamo indosso la nostra divisa sempre più lacera, senza alcun ricambio di biancheria né medicinali.
Non avevamo da fumare, e entrando in carcere ci avevano sequestrato tutti i nostri beni: anelli, orologi, medaglie, croci cavalleresche, armi e naturalmente i soldi delle ultime paghe militari.
I carcerieri erano stati arruolati tra i camorristi della Guardia cittadina di Napoli e i liberali; ci trattavano duramente con offese continue, bastonature e fustigazioni per quelli di noi che osavano protestare ricordando di essere prigionieri di guerra.
Il 20 novembre il governatore delle carceri venne con i suoi soldati, un avvocato e un ufficiale medico per leggere a noi prigionieri laceri, stanchi e depressi il bando di arruolamento nell’esercito italiano, dicendoci che se aderivamo avremmo avuto gradi, stipendi, nuove divise e armi e la “libertà” di servire il re del Piemonte.
Ci riferirono anche che a Mola di Gaeta avevano già aderito 900 soldati e 28 ufficiali del 15esimo Battaglione Cacciatori con in testa il generale Pianell e cosi i suoi colleghi Cardarelli, Nunziante,il sergente La rosa e 10 ufficiali dell’Ottavo Cacciatori, il generale Barbalonga e molti ufficiali.
3000 prigionieri, tra cui io, accettarono di prestar servizio nella Guardia nazionale dei comuni di residenza originari e cosi il 23 novembre 2600 militari del contingente di Capua passarono nella Guardia nazionale calabrese, altri 300 in quella pugliese e io e altri 100 in quella del Molise.
In effetti la Guardia nazionale non era propriamente esercito piemontese; era stata creata da Francesco II il 7 luglio 1860 dopo la concessione della sua costituzione del 25 giugno; inizialmente era formata da 3mila ex Guardie urbane e uomini affrancati dalla prigionia, dal confino e dall’esilio politico.
Io, Domenico Di Iorio con 100 miei compagni fummo subito mandati alle docce e lavati, sbarbati e rifocillati; avemmo sigari e pipe da fumare e il giorno dopo, 21 novembre, venimmo ricondotti a Capua in treno e da lì sotto scorta armata di Carabinieri e Guardie nazionali fummo trasferiti al deposito militare di Isernia, dove ognuno venne smistato tre settimane dopo ai comuni di residenza.
Così, il 20 dicembre entrai a far parte della Guardia nazionale di Pietrabbondante, al comando di un capitano e del tenente Del Gesso, composta da 130 militi civici locali; ebbi la mansione di furiere militare.
Presi parte a diverse spedizioni della Guardia dei comuni di Vastogirardi, Agnone, Isernia, Pietrabbondante insieme con i carabinieri e le truppe piemontesi nel vicino bosco di Collemuccio.
Combattevamo contro i briganti della banda Cozzitto, formata il 23 ottobre dal  tenente di gendarmeria Basile con 12 gendarmi sbandati di Isernia e da 3 Cacciatori a cavallo di Termoli, 15 artiglieri fuggiti dalla sconfitta di monte Macerone, 60 terrazzani e montanari, pastori, braccianti agricoli ed ex guardie urbane sfuggite alla cattura piemontese dopo la battaglia del Macerone.
In 7 mesi di caccia le Guardie nazionali ne uccisero molti; 7 prigionieri furono fucilati dai soldati piemontesi a Pietrabbondante davanti alla popolazione locale terrorizzata dalle notizie di eccidi in tutto il Molise e Abruzzo, e delle terribili rappresaglie di Pontelandolfo, Campolattaro e Casalduni, nel beneventano nell’avellinese e in Puglia.
Il tenente Basile riuscì a fuggire e nell’estate del 1861si uni alla banda di Cosimo Giordano, sergente borbonic oche operava nel beneventano.
Mio padre Pietro, che andava a vendere a dorso del suo asino pane fresco e ricotta, mozzarella, formaggio, e mia madre Carmina Nerone, il 25 ottobre vennero arrestati dalla Guardia nazionale di Agnone perché sospettati di essere manutengoli di briganti molisani e trasferiti in carcere a Isernia. Dovetti mettere subito un ottimo avvocato penalista a difenderli: rischiavano la fucilazione. Pagai una cauzione di 25 ducati e i miei genitori furono rimessi in liberta dal Giudice Criminale di Campobasso il 20 dicembre.
Intanto il 25 marzo venni promosso caporale dea Guardia nazionale di Pietrabbondante mentre mio fratello Fiorangelo, che militava nella forestale, nel gennaio del 1862 fu promosso brigadiere.
Io, nel luglio fui decorato di medaglia d’Argento al Valor Militare perché mi ero distinto nella lotta contro i briganti e poi promosso sergente; ebbi anche l’incarico di capousciere del Comune di Pietrabbondante.
Cercai notizie di mio fratello Luigi che, soldato dell’VIII Battaglione Cacciatori, aveva combattuto contro Garibaldi a Calatafimi e Palermo con i gradi di sergente e ottenendo la Medaglia di San Giorgio al Valor Militare.
Aveva combattuto a Milazzo e poi era rientrato a Napoli con il suo battaglione combattendo al Volturno fino al 2 ottobre; in seguito aveva fatto parte della guarnigione borbonica di Gaeta dal 4 novembre 1860 al 13 febbraio 1861.
Sapevo già che il 15 febbraio era tra prigionieri di guerra trasferiti via mare al carcere militare di Ponza, mentre altri 10 mila compagni erano stati destinati alle carceri di Procida, Ischia, Ventotene, Isola del Giglio e Isola d’Elba.
Seppi con certezza che non faceva parte dei 4000 prigionieri presi al monte Macerone  portati via mare a Rimini e da lì a Milano e Bergamo, né dei 500 prigionieri del forte di Civitella del Tronto che si erano arresi il 2 marzo e tradotti a Termoli e poi a Pescara e Ancona e poi al campo militare ex pontificio di Ascoli Piceno.
I comitati borbonici di Napoli esclusero che facesse parte delle liste degli 8mila prigionieri rinchiusi in Sicilia, e fatti partire via mare per Genova per presentarsi davanti alla Commissione militare composta da 5 ufficiali superiori piemontesi nel forte di San Benigno, dove dovevano scegliere se entrare nell’esercito italiano o essere respinti a casa …
Luigi non era neanche nell’elenco dei 10.266 prigionieri borbonici della Calabria di cui 4mila imbarcati ancora per Rimini e quindi per la Lombardia il 23 novembre.
Dovevo ancora controllare l’elenco dei prigionieri borbonici di Gaeta, deportati nelle isole del golfo di Napoli e di Ponza; ero preoccupato perché, in barba all’armistizio del 13 febbraio, 2mila soldati, benché si fossero arresi, vennero fucilati dai piemontesi.
Si sapeva inoltre che circa 43 mila prigionieri borbonici di guerra erano stati inquadrati dai vincitori in Lombardia, nel golfo napoletano e ponziano, in Sicilia.
In seguito, dal 7 ottobre al 21 novembre vennero trasferiti via mare 21.5500 prigionieri  in Liguria, smistati poial campo militare di Alessandria, nel forte di Priamar di Savona e in quello di Chiavari.
Per avere notizie di Luigi controllavo tutte le liste di prigionieri; seppi che dal dicembre 1860 al marzo 1861 altri 8 mila prigionieri borbonici vennero deportati in America del Nord, obbligati a combattere tra le fila dei sudisti in una guerra civile che non era la loro. Mio fratello non era nemmeno tra quelli.
La deportazione era avvenuta in base ad accordi presi a Torino con l’ambasciatore degli Stati Confederati quando venne in visita ai prigionieri borbonici a Genova e a Napoli.
Riuscii poi a sapere che mio fratello Luigi era vivo e prigioniero di guerra a Ponza; l’8 novembre 1861insieme con altri soldati aveva inviato una lettera di protesta sulle gravissime condizioni dei detenuti di quel carcere al giornale La gazzetta meridionale .
Era stato inutile, ma comunque la denuncia aveva sollevato interrogazioni in Parlamento a Torino; inoltre le trattative per deportare i prigionieri borbonici all’estero, in sperdute isole equatoriali erano state accolte con sdegno da parte dei Governi inglese, portoghese, francese, americano e belga.
Nel frattempo in tutto il Sud continuavano requisizioni di terre, viveri, denaro, beni immobili, confische di palazzi,ville, masserie, requisizioni di granaglie, cavalli, asini, greggi di pecore e di bestiame, specialmente di proprietà della Chiesa.
Nella sola Italia continentale vennero fucilati 22 frati, 64 sacerdoti, 968 case incendiate, 54 paesi distrutti,12 chiese saccheggiate, 6 paesi cancellati del tutto 3000 famiglie perquisite,50 donne uccise perché complici di briganti meridionali, 60 ragazzi persero la vita durante le rappresaglie dei miliari piemontesi,13.529 persone arrestate, tra militari sbandati e popolani sospetti,1428 comuni devastati da scontri di guerriglia.
A questo impressionante elenco di episodi di vera e propria pulizia etnica si aggiunse anche la censura su tutti i giornali borbonici.
Nel 1863 la legge Pica contro il brigantaggio meridionale inasprì ancor di più la rappresaglie in tutto il Sud, istituendo anche lo stato d’assedio, il coprifuoco, la legge marziale, che prima vigevano solo in alcune provincie, e la proibizione di visite e l’invio di pacchi, di denaro, di avvocati di difesa per i carcerati borbonici.
Solo Napoli rimase in parte immune da questa rovinosa situazione.
Ritornando a me, Domenico Di Iorio, col grado di sergente della Guardia nazionale fui volontario nell’esercito italiano della III guerra d’indipedenza contro l’Austria nel 1866 e poi contro Roma pontificia nel 1870; mi guadagnai decorazioni italiane al Valor militare e nel 1866 i gradi di sottotenente di Fanteria di linea e di tenente aiutante di campo. Nel 1870 mi congedai rientrando al mio paese in Molise.
Mio fratello Luigi fu processato dalla Commissione militare italiana nel gennaio 1862 a Genova e rinchiuso al forte di Priamar di Savona, con 12.457 soldati e ufficiali borbonici; sofferente di malattia respiratoria ed estremamente debilitato, era stato riformato nel 1866 e sbarcato a Napoli.
In due mesi la sua salute migliorò moltissimo e s’imbarcò per Civitavecchia per poi andare a visitare, il 30 gennaio 1866, il suo re Francesco II; poi s’arruolo nel primo reggimento Cacciatori di linea pontificio di stanza a Roma.
Nel 1867 prese parte al combattimento di Velletri contro i garibaldini in difesa dello Stato pontificio e fu promosso capitano dell’esercito del Santo Padre Pio IX; parteciò poi alla difesa di Porta San Pancrazio.
Gli italiani vinsero definitivamente a Porta Pia nel settembre del 1870; mio fratello Luigi fu catturato e rinchiuso con 6 mila prigionieri a Sant’Elmo il 26 ottobre di quell’anno; rifiutandosi di usufruire dell’amnistia generale per i militari pontifici italiani, fu tra i 466 prigionieri di guerra che nel 1870 furono sbarcati in catene a Genova e avviati in treno a Pinerolo, con destinazione finale il carcere di massima punizione di Fenestrelle
In tutto furono 43mila i deportati militari borbonici nel nord o centro Italia dal 1860 in poi, compreso 1700 ufficiali i che si erano rifiutati di passare nell’esercito unitario.
Di contro Il 30 aprile 1861 di Capua la Commissione militare italiana di concerto con quella di Genova, appurò che 20mila soldati borbonici avevano accettato di passare nell’esercito italiano; con 2300 ufficiali ex borbonici avevano formato 12 reggimenti di linea meridionali di fanteria e 2 reggimenti di cavalleggeri, più 8 battaglioni di bersaglieri, spediti via mare in servizio al nord Italia; solo 820 furono i disertori accertati.
Questa è la storia della mia famiglia e in particolare quella del mio bisnonno Luigi Di Iorio, raccontata da suo fratello Pietro, autore del diario, non è ancora finita. Rimase sempre un irriducibile, ma il resto lo racconterò un’altra volta.
Michele Di Iorio
I parte https://www.lospeaker.it/una-guerra-civile/