Una guerra civile

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Tra le carte conservate dalla mia famiglia, ho trovato il diario di un mio antenato; lo trascrivo in parte per Lo Speaker con la speranza con la speranza di fare po’ di luce sul clima che si respirava ai tempi dell’unità d’Italia attraverso il racconto di chi quei giorni li ha vissuti.
Io, Domenico Di Iorio, molisano, nato nel 1837 a Pietrabbondante, nel distretto di Agnone in provincia di Isernia, figlio del contadino Pietro e di Carmina Nerone, pure di Pietrabbondante, due fratelli, Luigi nato nel 1839 e Fiorangelo nato nel 1840, ricordo la non facile situazione economica di famiglia: lavoravo nelle terre del duca D’Alessandro di Pescolanciano, signore di Vastogirardi di Ururi, conte di Pietrabbondante, patrizio di Agnone, Venafro e di Isernia, ma ero comunque spensierato.
Mio padre era il mezzadro del duca, e vivevamo nella casa colonica da generazioni; mio fratello secondogenito Luigi, molto vivace, su consiglio del parroco e del duca D’Alessandro nel 1851fu mandato a studiar al collegio militare di Maddaloni, vicino Caserta; prestò poi servizio nell’VIII Cacciatori di linea di Nocera nel 1856 e fu distaccato un anno dopo a Salerno, nella caserma di Portanova, col plotone del tenente Giuseppe Palmieri di Castellammare di Stabia, mentre l’altro fratello Fiorangelo fu arruolato come guardia forestale nel 1857.
Io, dopo gli studi elementari fui mandato dai Padri Scolopi nel liceo di Campobasso, perché per il duca ero una mente da profondi studi letterari e storici …
Poi nel 1855 proseguii la mia formazione studiando Giurisprudenza, tra tomi, codici e pandette, avvocati paglietta e giudici severi nelle loro toghe alla Real Università degli Studi di Napoli.
Stanco e annoiato dagli studi giuridici, preferivo poesie, storia, visite a musei e scavi archeologici, pizze e belle ragazze; perciò nel 1856 m’arruolai volontario nel Real esercito al deposito di leva di Napoli e dopo un corso militare di perfezionamento fui nel 13esimo Reggimento di linea a Trapani in Sicilia.
L’esercito duosiciliano era fedelissimo al sovrano Ferdinando II di Borbone, la dinastia regia che governava l’indipendente reame dal 1734.
Re Ferdinando era amato non solo da noi soldati ma da tutti i suoi sudditi; mori nel 1859, lasciando al trono il giovane figliolo Francesco II, un bravissimo giovane un po’ timido, sposato con una stupenda regina di 19 anni, la tedesca Maria Sofia, sorella di Sissi,l’imperatrice d’Austria, cui somigliava tantissimo.
Intanto in Sicilia tra la mafia contadina del e la potente borghesia latifondista agraria isolana, che sfruttava la debolezza economica di molti antichi nobili di siciliani, sin dal 1821 si agitavano separatisti e ribelli filopiemontesi.
Questi gruppi venivano fomentati e supportati dai servizi segreti dell’Inghilterra delusa per la questione dell’estrazione negata loro dello zolfo nel 1840 e fortemente infastidita dalla presenza dell’organizzatissima marineria duosiciliano nel Mediterraneo; anche l’intelligence piemontese del primo ministro Cavour trescava da anni con i massoni siciliani e napoletani.
Infatti tra il 1856 al 1860 erano stati accesi,prontamente spenti dal sovrano, vari focolai di rivolta di picciotti agli ordini dei capi mafiosi.
Il Comando di Stato Maggiore di Napoli aveva concentrato dall’8 marzo al 7 maggio  1860 soldati tra Sicilia, Calabria, Abruzzo e Molise, Puglia, per un totale di 80 mila uomini in armi, più 8mila gendarmi di polizia militare.
Quando Garibaldi sbarcò a Marsala l’11 di maggio, trovò 780 picciotti armati che andarono ad ingrossare le sue fila e terreno fertile per la sua avanzata a causa delle indecisioni e tradimenti dei generali duosiciliani.
Il 15 maggio 1860 iniziai a riflettere: le cose si stavano mettendo molto male e mi preoccupai ancor di più sapendo che il nostro governo aveva proclamato il richiamo di 53mila congedati della riserva , compreso di mio padre Pietro Di Iorio da Pietrabbondante, mezzadro agrario, che aveva servito re Ferdinando II nel 1834 nel 10mo reggimento di linea Abruzzi al comando del colonnello Rodriguez, congedandosi nel 1849.
Mio fratello Luigi, di militanza nell’VIII Battaglione Cacciatori era rimasto leggermente ferito sia a Calatafimi che a Partinico e Palermo.
Il nostro esercito, benché si fosse battuto valorosamente, il 28 luglio fu inspiegabilmente fatto ritirare e il grosso delle truppe spostato a Napoli e in Calabria, lasciando di fatto quasi tutta la Sicilia in mano ai garibaldini, soprattutto armi e oltre 12mila nostri soldati prigionieri.
Nel settembre mio fratello Luigi era con il suo battaglione a Capua, e mio padre era tra i richiamati della riserva sul Volturno, mentre io mi trovavo a Napoli col13esimo Reggimento di Fanteria di linea del colonnello Perrone.
Dopo la battaglia del Volturno, il 2 ottobre lasciammo nelle mani delle truppe garibaldine altri 2160 nostri militari prigionieri, che vennero rinchiusi nel carcere di Caserta e poi il 12 ottobre trasferiti in gran parte a Napoli a Castel Sant’Elmo.
Mio padre aveva seguito le truppe regie del generale Luigi Scotti Douglas a Venafro, si era unito al capitano Monteleone e al tenente Basile della gendarmeria di Isernia: avevamo marciato sulla città avendo la meglio sulla Guardia nazionale.
Con l’aiuto della popolazione locale i liberali vennero rinchiusi in carcere; atterrati gli stemmi sabaudi e le bandiere tricolori, sul Municipio venne innalzata la nostra bandiera con i gigli delle Due Sicilie.
Popolani e soldati insieme proseguirono l’avanzata riconquistando facilmente il 5 ottobre Agnone, Vastogirardi e la natia Pietrabbondante, dopo avevano sconfitto un battaglione di Guardia mobile nazionale inviato da una Campobasso liberale antiborbonica; il battaglione era stato poi annientato a Carpinone il 17 ottobre.
Intanto erano arrivati a Napoli altri 1500 soldati piemontesi; altri 39 mila piemontesi che in settembre avevano vinto le truppe pontificie in Marche e Umbria, avevano occupato gli Abruzzi e dilagavano in Molise.
Avevano sconfitto al monte Macerone 5000 nostri soldati e 1500 terrazzani, popolani ed ex Guardie urbane volontarie, catturando 4000 tra soldati e ufficiali e 900 popolani.
I generali piemontesi Pinelli, de Sonnaz e Pallavicino fucilarono con l’accusa di brigantaggio 35 popolani in Abruzzo e 900 ribelli molisani presi a Monteforte.
Mio padre, che aveva preso parte alla battaglia del Macerone, il 20 ottobre fu fatto prigioniero.
Io, Domenico Di Iorio, soldato semplice del Regio Esercito delle Due Sicilie, di stanza a Capua, facevo parte della guarnigione che fu catturata dai piemontesi il 2 novembre;  rimanemmo prigionieri lì per alcuni giorni e poi il 6 ottobre venimmo trasferiti al carcere militare di Caserta; poi marce forzate a Napoli, dove fummo divisi in gruppi: alcuni finirono a Capua, altri a Procida, Nisida e Ischia.
Sapemmo da informatori nostri dei Comitati borbonici di Napoli che assistevano i prigionieri militari che mio padre Pietro era stato liberato perché anziano e invalido di servizio, sofferente di artrosi, reumatismi e di cuore, e quindi non idoneo per esser l’arruolamento nell’esercito italiano unitario allora in formazione.
I bandi di arruolamento, quello garibaldino a napoli di Silvio Spaventa dell’8 settembre e quello piemontese del 20 novembre non facevano dunque per lui e se ne tornò a casa al suo lavoro di mezzadro.
Mio fratello Luigi, promosso Secondo Sergente dei Cacciatori, era alla difesa di Gaeta.
Intanto già da settembre era scoppiata la guerra civile: orgogliosi e fedelissimi duosiciliani contro liberali, garibaldini e piemotesi. Una guerra fratricida in uno Stato che si voleva unito.
Il 29 settembre in Molise, il 19 ottobre in Abruzzo, il 21 ottobre nelle campagne del beneventano e di Terra di lavoro, nel distretto ciociaro di Sora fino a Itri, Portella sul Garigliano, le battaglie infuriavano.
Secondo stime piemontesi erano coinvolti 8000 soldati borbonici sbandati in Abruzzo e Molise e 13mila in puglia, solo all’inizio della resistenza, su un totale di 80mila insorgenti in tutte le provincie meridionali.
Nota dell’Autore: Tante sono le cose che accaddero alla mia famiglia e ai loro compatrioti in quei giorni … Così tante che le racconterò nel prossimo articolo.

Michele Di Iorio