Il film: Non essere cattivo

non-essere-cattivo-poster - CopiaOstia, 1995: Vittorio e Cesare sono due ragazzi di vita, sospesi tra destini di malavitosità, droghe  e sentimenti. Li dividono le loro strade e i loro incontri, ma il rapporto tra loro è forte e profondo. “Non essere cattivo” (ITA,15), a parte che è un bel film, meriterebbe esso stesso un film sulla sua storia produttiva.
Il suo regista è lo sfortunato Claudio Caligari (anche sceneggiatore insieme a Giordano Meacci, Francesca Serafini, tutti e due alla prima sceneggiatura importante), deceduto nel corso delle riprese nel maggio 2015, a 67anni. Nato ad Arona, aveva dedicato la sua attenzione al problema dell’eroina tra i giovani e, in particolare, sul Litorale Romano. Personaggio appartato, lontano dalla ribalte gossippare del showbiz, ha diretto pochissimi film: tre, compreso questo, e quattro documentari, peraltro di qualità e di consapevole impegno sociale.
Tuttavia è stato il pur imperfetto “Amore tossico” (1983), ad assicurare al regista un posto nella Storia del cinema italiano e nell’immaginario collettivo. Egli ha saputo fondere un’attenta e documentatissima riflessione sull’eroina, basata sulla sceneggiatura di Guido Blumir, uno dei più importanti studiosi del fenomeno, con lo sforzo di ricercare nell’assoluta distruttività della sostanza, percorsi di straziata umanità dei personaggi.
Come se avesse steso su di loro un velo caravaggesco di comprensione profonda, senza giudicarli. Ma realizzando delle forme di linguaggio che, nel più crudo realismo, ha avuto la sensibilità e l’intelligenza grafica di  individuare delle forme di  toccante poeticità: in questo la sua consonanza con Pasolini, citato direttamente sul finale, è stata assoluta, benché autonoma.
Nel suo secondo film (“L’odore della notte”, 1998) è diventato amico di Valerio Mastandrea, protagonista. Ed è questi che ha preso in pugno la gestione produttiva della sceneggiatura di Caligari, che nessun produttore voleva realizzare. Con un’energia artistico-imprenditoriale e una generosità senza pari,ci ha fermamente creduto,si è adoperato andando un giro, tra Ministeri e Banche, bussando alla porta di produttori eha perfino trovato una distribuzione (la Good Film di Ginevra e Lapo Elkan), che ha dato valore al film, e l’ha portato a Venezia 2015. Dove, pur non in gara, è stato considerato tra i due o tre più belli.
Ma non solo: Mastandrea è stato una sorta di nume tutelare della sua realizzazione. Presente in ogni fase delicata, spesso, a detta degli attori, si adoperava per stemperare la naturale ruvidezza del regista.
Ma queste sono sempre vicende di contorno del film: ne fanno comprendere comunque la complessità, laddove, beninteso, ci sia nel suo tessuto narrativo.
La domanda è: perché il ‘95? La risposta data è che proprio in quegli anni avviene “il passaggio epocale” tra la piccola criminalità di borgata, qual era considerata Ostia, e quella organizzata, dedita allo spaccio e ad altro, in modi industrialmente pianificati, e centralmente strutturati. Come lo sono adesso.
Ciò ha comportato un’ulteriore “mutazione antropologica”: qui l’evidente lascito pasoliniano è stato creativamente e validamente applicato nell’esplorare le dinamiche dei personaggi. Quelli del passato diventano sostanzialmente, rispetto alle brutali e spietate ragioni delsistema/crimine, arnesi vecchi e desueti, delle certe patetiche vittime.
Gli autori del film hanno focalizzato la loro attenzione sulla complessa e contraddittoria personalitàdei ragazzi, ancora in bilico tra vita ordinata lontana dal delinquere e la scelta della criminalità. E c’è spazio pure per una battuta ironica, nello stile di “I soliti ignoti”: «Aò, che c’è un’epidemia de lavoro? » nel mentre si sottolinea una scelta in tal senso.
Quindi: la sofisticata analisi sociale è profondamente incarnata nei destini dei due ragazzi, non è “aggiunta” a posticcio. Ha dei risvolti e passaggi psicologici all’apparenza espressi in un linguaggio truce, da mezzi coatti: ma il destino è quello, se non affrontato in modi diversi. Qui anche funziona la lezione pasoliniana: l’ambiente, con le sue claniche  logiche di appartenenza, incombe, e la lotta per l’affrancamento, giustamente, non ha un esito scontato. Ma si combatte e si rischia, giorno per giorno e ciò dà credibilità all’intero film.
Vorrei chiudere con un’ulteriore nota su Mastandrea: ha accompagnato, con un’affettività profonda, quasi in parallelo, il chiudersi della vicenda umana, con quella del film: le ultime indicazioni del montaggio definitive sono venute poche ore prima del coma.
C’è la sequenza finale del film, quando viene presentato il neonato figlio di Vittorio (Luca Marinelli), segno di speranza: assistiamo ad un intenso pianto di liberazione: l’emotività dei rapporti radicati tra i personaggi prende chiaramente e finalmente il sopravvento.
Ma è anche, in metafora, la speranza che il film, come un neonato, sia un lascito che superi la morte del regista, ne assicuri la continuità nel ricordo e nell’affetto di chi lo ha stimato.

Francesco “Ciccio” Capozzi