Il film: Un ragazzo d’oro

Un ragazzo d'oroDavide ha avuto un padre ingombrante in vita e ancor di più dopo morte. Alla ricerca del suo capolavoro incompiuto e incompreso, si protende tanto dentro di lui da restarne annichilito.
Pupi Avati, longevo e acclamato maestro del cinema italiano, ha firmato la sceneggiatura e la regia di questo film (ITA, ‘14); l’ha pure prodotto insieme al fratello Antonio. Fratello che, peraltro, ha avuto anche voce nel casting: è lui che ha indicato a Pupi Riccardo Scamarcio nel ruolo di protagonista. Un’altra scelta singolare è stata quella di Sharon Stone in un ruolo chiave.
Il film appare incentrato sulla scansione della memoria attorno alla figura di un padre presente, benché lontano: anzi, ancora più presente dopo la sua dipartita, forse per un suicidio.
Sicuramente, come ha detto il regista, c’è la componente autobiografica: il suo è morto all’età di 12 anni; tuttavia emerge un’altra componente: quella del fallimento, come dimensione esistenziale  e dell’inconcludenza rispetto alle proprie aspettative e talenti.
È un tema che gli è molto caro, che lo portato a creare alcuni capolavori misconosciuti come “Festival” (‘96), con un Massimo Boldi, drammatico, in uno dei più insoliti e bei ruoli della sua vita.
Davide, scrittore di talento, ma che non trova una sua linea creativa, vuole riscattare la memoria del padre, oltraggiato sceneggiatore per insulsi filmacci di cassetta. Anzi l’unica sceneggiatura che poteva essere di affrancamento da questa fama, viene ipocritamente avvilita – addirittura diretta – in uno dei soliti film da uno che si spacciava per «caro e vero amico» del padre.
«Questo è il cinema, baby», sembra dirci Pupi Avati. E il nostro pensiero va ai tanti sceneggiatori e registi, denigrati, se non vilipesi (e spesso ne soffrivano) dalla critica, perché facevano film cosiddetti di cassetta: ma che oggi i cinefili stanno riscoprendo, e a cui maestri del cinema internazionale rendono omaggio. Non a caso è citato Quentin Tarantino.
Però Avati si concentra sulla vicenda umana del suo protagonista. Che entra in sintonia creativa col padre: ne compone un omaggio di un affetto così totalizzante ed esclusivo, che lo farà sdoppiare psicoticamente. Ma lo aiuterà a creare il “loro” capolavoro: cioè scritto da Davide, ma che verrà attribuito al padre. E comunque in sintonia con quello che poteva essere il suo sentire alla vigilia della morte. E Davide ne sarà orgoglioso e felice: finalmente appagato.
In questo percorso di identificazione, funzione fondamentale svolge l’”ultima musa”, forse a causa della quale il padre ha voluto escludersi dal mondo, interpretata da Sharon Stone, ormai diva crepuscolare, che proprio per questo ben si attaglia all’universo avatiano.
La sua è una bellezza matura, esperta di mondo e di persone, inaccessibile, misteriosa, prossima al viale del tramonto e perciò ancor più inafferrabile, ricca di fascino e richiami di vita.
Come il padre, anche il figlio ne resterà soggiogato. Ma non da lei come persona: bensì da quello che ha rappresentato per il padre. Mentre la sua fidanzatina, incerta e immatura, lo tradisce col suo ex.
Ruolo di custode passiva del reliquario domestico del padre, nonché complice, nel suo ruolo spinto di crocerossina «che tutto perdona» è la madre: una stupenda, inossidabile  – ottant’anni! – Giovanna Ralli.
Riccardo Scamarcio è bravo, veramente bravo, nel dare quel mix di esasperata, indifesa sensibilità, ma anche di fisicità al procedere del perdersi entro se stesso. Anzi, proprio a lui si deve se la parte finale recupera nel pathos partecipativo.
Da mettere in rilievo l’apporto tecnico-artistico di Blasco Giurato, uno dei maestri della nostra fotografia, che ha lavorato con Tornatore e altri grandi del nostro cinema. Ha reinventato e graduato le dimensioni cromatiche e ambientative in relazione al procedere della trasformazione della personalità del protagonista e di chi stava attorno.

Francesco “Ciccio” Capozzi