Il film: Locke

LockeIvan Locke, “faticatore” e padre di famiglia, nella notte molla tutto e va da Birmingham a Londra presso una tizia che, rimasta incinta per l’avventura di una notte, deve partorire.
Ecco un film (Ingh, ‘13) che riconcilia l’amore per il cinema. Girato solo ed esclusivamente all’interno dell’auto, mentre si compie il viaggio, fa capire cosa si può fare quando il regista ha la capacità di trasformare un assunto di per sé assolutamente anticinematografico, com’è questa assurda location, in puro linguaggio espressivo.
Non c’è nemmeno un flashback, che ci allontani da quell’abitacolo, ma tutta un’esistenza si sviluppa davanti ai nostri occhi; e soprattutto orecchi. Perché il protagonista passa tutto il tempo del tragitto, che quasi esattamente corrisponde agli 85 minuti della proiezione, al telefonino.
A tal proposito il regista, il geniale e tecnicamente mostruoso Steven Knight, anche ideatore e sceneggiatore del film, esplicita una nota assai interessante: «Il telefono trasforma il tempo trascorso da solo in un abitacolo di una macchina, in una prova di recitazione. Ad ogni telefonata sei costretto a interpretare un ruolo, che ti definisce: marito, padre, amante, impiegato, datore di lavoro. Ti relazioni con chi è dall’altra parte del telefono,e quella relazione ti definisce il tempo».
Ecco svelato l’arcano delle chiave drammaturgica che ha impresso all’insieme uno scorrere che ci cattura.
L’”andare verso”, esprime una tensione di cui già vediamo caricato il protagonista, che investe, per prima cosa, il suo più immediato collaboratore di una responsabilità professionale assai gravosa  da espletare la mattina successiva.
Pur essendo stato in grado di organizzarla alla meglio, egli sarà licenziato: ma non se ne cura, avendolo già quasi messo in conto. Egli va dalla compagna di una notte, donnetta flebile e insicura, e di cui non è nemmeno innamorato, perché egli stesso è un figlio di un padre che l’ha abbandonato.
Ed è questa ossessione, di non voler abbandonare quella creatura ora nascente, e di cui si sente assolutamente responsabile, che lo spinge a comportarsi  con questa irruenza decisionistica e anche autolesionista, rispetto al lavoro. Ma anche rispetto alla famiglia, e per cui la moglie, ferita dalla relazione venuta a galla, e rifiutandosi di dare ascolto alle motivazioni profonde del marito, sempre e solo per telefono, lo caccia di casa.
Mentre per il resto è un tipo affidabile, meticoloso e preciso fino alla pignoleria, nella vita come nel lavoro, soprattutto: ma è proprio quest’attitudine che lo trarrà fuori da una grave difficoltà che stava incontrando nell’operazione.
Egli è anche in grado di comprendere le psicologie altrui: ha la fiducia degli altri, perché sa motivare la loro fiducia. Come quella del suo vice, che, aiutato a vincere sconforto e sfiducia in sé, porterà a termine il compito.
Locke appartiene alla workingclass: si comprende dalla solidità, immediatezza pratica del suo porsi; come anche del suo vestire. Viaggia in Bmw: ma perché è uno che lavorando duramente ha raggiunto posizione sociale e benessere.
Vuole restare fedele a se stesso; vuole sviluppare in positivo la sofferenza del suo mancato rapporto col padre.
Su questo registro un’altra nota dell’autore: «La solitudine che si ha dentro la macchina quando si guida da soli  (è) (…) tutta particolare. (…) La gente in macchina parla da sola. Sei solo a modo tuo». Perché è un serrato e violento colloquio che Locke ha con se stesso e col padre che gli è mancato, verso cui esprime rabbia, ma anche tenerezza e rimpianto, in un amalgama di sentimenti assai confuso, bruciante e doloroso.
È ovvio che solo un grande attore poteva reggere questa prova: Tom Hardy è semplicemente superbo. L’abbiamo visto come impressionante Banenel di Cavaliere Oscuro-Il ritorno di Ch. Nolan.
Di grande supporto artistico è la fotografia, di Haris Zambarloukos: l’aggressività cangiante delle luci e luccichii della notte dà il senso della mobilità: non solo esteriore, ma interiore. Sottolineano la sua estrema difficoltà esistenziale.
Così la montatrice Justine Wright è diabolicamente abile, nell’assecondare i vari crescendo emotivi, con leggeri, rapidi, ma costanti e attenti tocchi visualiche enfatizzano il senso narrativo.

Francesco “Ciccio” Capozzi