L'avventura di un antiquario

antiquarioUn mio vecchio amico antiquario, Maurizio, una volta mi raccontò che era ad Avignone, in Francia, nel caos di un grande mercato d’antiquariato, quando si avvicinò un suo collega e caro amico francese, di lontane origini italiane, Jean Battista Russo.
Lo salutò abbracciandolo e mentre erano ancora abbracciati Jean Battista gli confidò in italiano perfetto: «Sai, Maurizio, in un negozio di un mio amico ad Alés, alla rue Saint Marc, ho visto un oggetto strepitoso. Sono circa cinquanta chilometri da qui, se ti interessa questo è l’indirizzo».
L’antiquario, fidandosi, lasciò subito il mercato, il caos, preferendo partire insieme al fratello, alla volta di quel paese.
Era piena estate. Il paesaggio del Sud della Francia era bellissimo, faceva caldo. Ricordava vagamente i paesaggi toscani, senesi. Piccole e dolci colline verdi, colorate da grandi chiazze di giallo di stupendi girasoli, tagliate da un sinuoso nastro d’asfalto, grigio scuro, fiancheggiato da due morbide e profumate fasce di lavanda viola, le quali rilasciavano nell’aria un profumo dolciastro, il profumo della Provenza. Il tutto si stagliava  contro un cielo, azzurro terso.
Il loro furgone, scorreva via su quel nastro d’asfalto, grigio, scuro, cocente. Veloce, in quelle  strade di campagna, su e giù, per le dolci e colorate colline. Del paese nessuna traccia. Solo colline, girasoli, grigio, giallo, viola, verde, blu. Il sole era forte, abbagliante. Mi raccontò che i loro occhi si socchiudevano per filtrare la luce. Quell’aria, quel profumo, quei colori stemperati,  confusi dagli occhi socchiusi, facevano sognare l’antiquario. Viaggiava, dal vivo, in un quadro di Van Gogh.
Lontano notarono la silhouette di un piccolo abitato. Pensarono si trattasse del paese che stavano cercando, invece  era solo un piccolo centro con poche case, una piazzetta assolata da cui partivano due stradine strette, una chiesa, un bar. Decisero di fermarsi al bar per chiedere informazioni.
Fermarono il furgone carico di oggetti preziosi acquistati nei giorni precedenti proprio davanti al bar, per tenerlo sott’occhio. La piazzetta era vuota. Le due stradine ormai deserte. Il paese dava l’impressione di essere morto.
Ma quando entrarono nel bar trovarono una sorpresa: sembrava di essere in un altro mondo. In Marocco o in un caffè dell’antica Qasba di Algeri.
Un ticchettio assordante li accolse. Era un ambiente buio, fumoso, affollato, rumoroso. Decine di tavoli, intorno ad ognuno dei quali quattro persone, nordafricane, sudate, accaldate. Tutti uomini, qualcuno a dorso nudo coperto da enormi tatuaggi, che lasciavano immaginare permanenze in prigioni di chissà quale posto del mondo.
Gigantesche pale di un ventilatore roteavano lentamente nell’aria al centro del soffitto, spostando un fumo denso, misto all’aria umida impregnata di sudore umano.
Erano tutti intenti a giocare il trictrac,  quel gioco simile al nostro domino, amato dalla gente di quei paesi e che si gioca con tesserine in legno dipinto, bianco e nero.
Erano decine di tavoli, decine di persone, centinaia di tesserine che si muovevano producendo quell’assordante ticchettio, l’alternarsi dello spostamento di ogni singolo tassello.
Varcarono la soglia e, di colpo, il silenzio fece spazio al fruscio di quelle grandi pale. Smisero tutti di giocare alzando quegli occhi neri che si stagliavano in quelle mandorle bianchissime. Un biancore fluorescente forato da profonde pupille nere. Mi disse che c’erano, per ogni tavolo,  almeno otto pupille, spalancate e  curiose, che fissavano la loro sagoma in controluce.
Era di mattina, oziavano tutti. Tra questi occhi dovevano esserci anche gli occhi di delinquenti, nullafacenti che aspettavano solo il momento opportuno e la persona giusta da rapinare o da  truffare. Forti della loro esperienza napoletana, abili a nascondere umori ed espressioni, il mio amico antiquario e suo fratello, senza parlarsi non chiesero alcuna informazione riguardo al paese degli antiquari.
Gli eventuali malintenzionati potevano pensare due cose: la prima che erano antiquari in viaggio per acquisti, con denaro contante; la seconda che dovevano fare qualche consegna e che avevano nel furgone merce preziosa.
Entrambe le ipotesi potevano essere molto allettanti per chi aveva delle intenzioni non proprio gentili nei loro riguardi. Decisero di non destare curiosità e si avvicinarono con passo sicuro al bancone. Ordinarono da bere, intanto il ticchettio lentamente riprese il suo ritmo assordante.
Il barista, con un gesto appena accennato, fece notare che c’erano tre individui che stavano uscendo dal bar. Mi disse che in quel sol gesto gli fece anche intendere che non erano tipi raccomandabili.
Due di loro entrarono in un’auto, parcheggiata appena fuori dal bar, di fianco al furgone. Il terzo uomo aspettò sull’uscio, tenendo ancora aperto uno di quei due battenti della porta.
Consumato da bere, Maurizio e il fratello, uscirono passandogli di fianco. Si avviarono verso il furgone con passo deciso, senza correre. L’antiquario mise in moto, fece la manovra per uscire dal parcheggio. Il terzo uomo si affrettò e quella macchina cominciò a seguirli.
Lui la teneva d’occhio dallo specchietto laterale. Andavano sempre più veloce per quelle stradine di campagna. La macchina bianca con i tre individui a bordo, era sempre attaccata dietro di loro. Non c’erano più dubbi, erano dei malintenzionati decisi a compiere il loro colpo.
Senza fermarsi, alla prima rotonda, diede una sterzata veloce e ritornarono indietro verso la strada conosciuta, verso l’autostrada. La macchina bianca non li mollava, era sempre attaccata dietro. Ma ecco finalmente l’ingresso dell’autostrada. Si sentirono più sicuri. Correvano sempre più veloce cercando di seminare la macchina inseguitrice. L’auto dei delinquenti era come incollata dietro. All’improvviso un bivio. Un’uscita imprevista e sconosciuta.
Una manovra azzardata, a tutta velocità, senza rallentare neanche un poco, senza segnalare alcuna intenzione di svoltare, all’ultimo istante, dell’ultimo
secondo, imboccarono il bivio. Gli inseguitori non ebbero il tempo di capire la manovra. Dovettero continuare spediti, per il percorso obbligato, senza alcuna possibilità di invertire la marcia.
I due fratelli, in extremis, si erano salvati da un sicuro agguato.
Si fermarono. Mi raccontò che tirarono un respiro di sollievo. Erano stanchi, sudati, impauriti, felici. Mi disse che lui e il fratello si guardandolo negli occhi e senza commentare l’accaduto ripresero a ritroso il percorso, questa volta senza fermarsi. Trovarono il paese che cercavano, il negozio segnalato dall’amico Jean Battista,  e comprarono quell’oggetto. Poi, via, con il nuovo oggetto da esporre nel proprio negozio una volta a Napoli.
Io, da antiquario, che conosco bene queste situazioni in cui ognuno di noi che fa questo lavoro si può imbattere,  ogni volta che entra un cliente nel mio negozio e mi fa quella famosa richiesta: «Ha qualcosa di nuovo?», penso sempre a quella storia che mi raccontò il mio vecchio amico Maurizio e penso: «Ma che ne sa la gente di queste storie! Che ne possono sapere queste persone di cosa si prova per trovare un oggetto antico».
Sono sempre avventure quelle che vive un antiquario, ogni oggetto ha la sua avventura vissuta,  piccola o grande, terribile o meravigliosa, banale o eccezionale, ma sempre accompagnata dal rischio, dai sacrifici, risate, sofferenze e  gioie. Il rischio di sbagliare, cadere in una trappola, viaggiare con soldi e merce in luoghi sconosciuti.
Ogni volta che sento quella richiesta penso ai sacrifici che si affrontano quando si è lontani da casa, quando si ha una segnalazione di un oggetto particolare e pur di possederlo, pur di appagare il proprio spirito agitato, si viaggia, si va. Nonostante tutto, si va!

 Mario Scippa