Venere in pelliccia

Venere in pelliccia

 
Parigi: Thomas, un regista teatrale sta facendo i provini per la protagonista della sua piéce “Venere in pelliccia. In chiusura, si presenta una sedicente, svampita e sboccata attrice che si chiama Wanda come la protagonista. E iniziano le danze …
Roman Polanski, all’età di 80 anni, ci presenta la sua 28esima regia: un film (FRA-POL, 13) proveniente dal testo teatrale omonimo di David Ives, che l’ha cosceneggiato con lui,e  che a sua volta si rifà ad un testo letterario dell’800 di Leopold Von Sacher Masoch.
Pur essendo assolutamente teatrale, in maniera ancora più esplicitamente esibita del suo ultimo Carnage (2011), l’opera diventa grande cinema per il taglio stilistico che Polanski ha saputo dargli.
Sono solo due attori sempre in scena. Lei, Emmanuelle Seigner, che pur presentandosi da matura e intraprendente proletaria della scena, in cerca di lavoro, mano a mano si mostra in grado di sconvolgere i ruoli attesi.
L’altro, MathieuAmalric, stranamente, ma non troppo è somigliantissimo al regista; e che, da “intellò” (intellettuale radical chic di Parigi), entra in una dinamica infernale che lo porterà ad assumere il ruolo “segreto” di vittima, “tipo” – come intercala spesso la plebea Wanda, l’archetipo di San Sebastiano, trafitto dalle mille frecce, nessuna mortale, del piacere “rimosso”.
È una dialettica avviluppante, concentrata in uno spazio ristretto,  ma che produce numerosissime onde. Gli echi delle parole, s’insinuano negli interstizi del vuoto del palcoscenico privo di orpelli, e con solo essenziali attrezzi.
Tutto rimanda alla geometria delle posizioni reciproche: esse sono come scolpite dalla parole cangianti come cromatismi in fondo al mare. Ma che non si disperdono nel vuoto: mutano le reciproche posizioni dei due; i loro reciproci spazi esistenziali. Che risultano sovvertiti; poi invertiti, in una danza che è genialmente sintetizzata dal finale, in quel misterioso e misterico ballo delle Baccanti.
È un cinema che muove con molta astuzia gli spazi e i tempi. Il montaggio accompagna, fin dalle prime battute, l’echeggiare delle parole. A curarlo sono ben due, Margot Meynier, giovane, e lo sperimentato ed eclettico Hervé De Luze: e quest’ultimo è uno dei più bravi della cinematografia francese e internazionale. Sono piccoli spostamenti che non danno tregua: accompagnano, esaltano e fanno variare, quasi senza che ce ne accorgiamo l’ossessività dei dialoghi.
Il Direttore della fotografia è il talentuoso polacco Pawel Edelman, che ha spesso lavorato con Polanski, riuscendo, come in questo caso, a portare le luci ad una varianza quasi fisica. E ciò si nota fin dalle primissime battute dell’entrée: il “fuori” è un prolungamento di un viaggio senza soste, verso un “dentro”, che è il teatro-verità, fisicamente fatiscente e concentrazionario.
La musica di Alexandre Desplat, incombente e violenta, contribuisce a suggerire quel senso di ineluttabilità, che presiede al ritualismo della messa in mora delle mascolinità del finale.

Francesco “Ciccio” Capozzi