Il potere rassicurante del cibo

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Contenuto nella raccolta “Principianti”, ma pubblicato già precedentemente nella raccolta dal titolo “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore” del 1981, “Una cosa piccola ma buona” è un racconto dello scrittore statunitense Raymond Carver (foto).
Un piccolo cenno sulla storia editoriale della raccolta aiuta a comprendere quanto sia importante, in questo campo,  la interazione tra creatività personale e scaltrezza imprenditoriale.
Gordon Lish, l’editor di Carver, rimaneggiò i suoi brani riducendoli all’osso, di oltre il 50%. Questo fece acquisire a Carver la definizione di autore minimalista, fortemente innovativo.
Tuttavia Carver non fu mai totalmente convinto di questa scelta e se decise di avallare la pubblicazione della raccolta fu essenzialmente per non perdere la fiducia del suo amico ed editor Gish; continuò ad immaginare la pubblicazione integrale dei suoi racconti, cosa che divenne per lo scrittore una sorta di sfida personale.
Il rischio era altissimo. Il pubblico aveva amato quel Carver creato da Gish e oscuro, invece, era il successo che avrebbe ottenuto un Carver integrale, senza riduzioni e senza rimaneggiamenti. Inutile dire che la sfida fu vinta: “Principianti” venne pubblicato postumo per volere della moglie di Carver, riscuotendo un grande successo di critica e di pubblico.
“Una cosa piccola ma buona” è un breve racconto che ha il suo epicentro narrativo in una attesa. L’attesa tragica e disarmante di una coppia di genitori in una stanza d’ospedale dopo un incidente d’auto che vede vittima il piccolo figlio Scotty proprio nel giorno del suo compleanno.
Scotty è inerte nel letto d’ospedale. Sembra morto ma respira ancora.
«È in coma? », chiede più volte la madre preoccupata al dottore. Il dottore è fiducioso, respinge l’idea del decesso, conforta i coniugi, dice loro di andare a casa, di mangiare un boccone, di avere fiducia: «Si risveglierà».
C’è una leggera commozione cerebrale ma le condizioni non sono gravi. Non resta che sperare, pregare forse.
Dall’altro capo della storia c’è un pasticcere che ha appena realizzato la torta al cioccolato con il disegno di una pianeta, l’astronave e la glassa rossa per il compleanno di Scotty. È ignaro di tutto quello che sta succedendo in quel momento. La sua è un’attesa ben diversa. Ha ultimato il suo compito e sta aspettando che la sua creazione venga ritirata e che i conti siano regolati.
È solo un pasticciere in una piccolo centro americano che sta aspettando di essere pagato; interrompe la tragedia domestica con telefonate anonime per ricordare ad Ann, la madre di Scotty, della torta in negozio.
Le telefonate divengono incessanti e sempre più grottesche, destando inquietudine ed angoscia nella donna che ha completamente dimenticato, in quella circostanza, la torta ed il pasticcere.
È proprio il pasticcere, figura in qualche modo salvifica, senza connotazioni ben precise –  «Solo un pasticciere. Non pretendo di essere altro»  – a tirare le fila di una narrazione che ha ben poco di straordinario ma tutto di delicatamente e straordinariamente umano e quotidiano.
Il suo ruolo delinea un epilogo rassicurante, caldo e mellifluo quale può essere il sapore di qualche panino alla cannella appena sfornato e trangugiato sul retro del suo negozio dopo la morte di Scotty dai due coniugi disperati che tuttavia accolgono di buon grado quel gesto di perdono, consolante e regressivo, come il piacere infantile di un panino burroso.
«Mangiare è una cosa piccola ma buona in un momento come questo»” è quanto di più confortante ed empatico il pasticcere riesca a proferire in una simile occasione.
Lì, nel retro della sua bottega, l’odore dolce che emana il forno riesce a conferire all’atmosfera narrativa una delicatezza domestica che sembra portare una speranza di bellezza anche al di là della tragedia familiare.
La stessa delicatezza domestica e quotidiana che contrassegna lo stile di Carver, i suoi personaggi e le ambientazioni che non perseguono nulla di eccezionale pur riuscendo a trasmettere l’aria di eccezionalità che è insita nelle piccole cose, che di norma vengono tralasciate in virtù delle ambizioni che tendiamo a rincorrere.
Il suo procedere narrativo, lento e sublimato in una semplicità mai frenetica, mai macchinosa, ha quasi il valore di una tregua momentanea per il lettore, calato nel dinamismo freddo di una metropoli e di una vita in cui raramente ci si sofferma a lasciarsi travolgere dai semplici gesti quotidiani.
Questo racconto in particolare sembra ricordare l’esistenza di uno spazio mediano, un Eden terrestre da cui siamo stati violentemente sfrattati, che tuttavia ancora esiste.
Si avverte l’esigenza di togliersi le scarpe e sentire il contatto con l’erba fresca della vallata senza pretendere di scalare la montagna e di disporre della porzione di spazio più ampia possibile. Lo sguardo passa in rassegna l’intero orizzonte visivo freneticamente ma si focalizza sui dettagli, cogliendo le dimensioni degli oggetti, le linee, gli odori.
Difficilmente la scrittura riesce a condurti nei meandri di un abisso inesplorato, quale può essere un ricordo rimosso. Come la madeleine proustiana riapre la voragine della rimozione, il panino di Carver può far pensare alla torta al cioccolato preparata da nostra madre dopo una caduta in bicicletta.
In questo senso non è tanto importante la tragedia che si è consumata, quanto il potere assoluto del conforto.  Per questo la lezione carveriana, con il suo tratto inconfondibile, entra nel vivo di un contesto domestico confortante che non appartiene a noi ma che ci è familiare: è la sensazione illusoria ma esatta di ricordare qualcosa che non appartiene al nostro vissuto.

Francesca Mancini