Il libro: Pazienti smarriti

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NAPOLI – La storia di due fratelli napoletani, ambientata nel loro quartiere, Vomero Arenella, nei luoghi un tempo teatro dei loro giochi di bambini e delle prime esperienze da adolescenti.
I due ragazzi, Ettore e Maria Rosaria, crescono insieme in armonia, legati da quell’amore fraterno che rende affettuosi complici; col tempo ognuno sceglie la propria vita, ma quel legame esclusivo li tiene sempre in sintonia.
Un giorno Ettore viene colpito da un male incurabile, e comincia il percorso narrato in  “Pazienti Smarriti”, il libro di Maria Rosaria Pugliese.
Tra flashback e racconti surreali, l’intreccio narrativo si svolge su due piani diversi: Maria Rosaria alterna la realtà di oggi a quella di ieri, perché quando non vi sono certezze il passato diventa l’ancora cui aggrapparsi per trovare la forza di affrontare una realtà troppo dolorosa.
Ancora, ci racconta il quotidiano spesso crudo vissuto negli ospedali inframmezzandolo con il dolore e i sentimenti, ma non si compiace delle sue pene, piuttosto presenta la sua esperienza in modo lieve, rispettoso, senza indulgere a vuoti manierismi.
La vicenda familiare di “Pazienti Smarriti” si snoda nei meandri degli ospedali, dove si soffre anche la solitudine; non solo lo stesso paziente rimane solo, ma anche la famiglia che lo segue, e allora i vicini di letto e le loro famiglie diventano compagni e ci si da la mano per non smarrirsi, non soltanto in senso fisico.
È questo il messaggio che vuole far passare l’autrice: denuncia sociale e dignità nel dolore, con l’intento di dare serenità e supporto a chi vive nella disperazione, ma senza pietismi di sorta: un diario doloroso dove il pianto rimane silenzioso, interiore.
Pazienti Smarriti si è classificato al terzo posto nella sezione narrativa della XVII edizione del Premio Domenico Rea, nel 2011, e nel 2009 è stato semifinalista al concorso Mondadori What Women Write.
Lo Speaker ha incontrato Maria Rosaria Pugliese; durante una bella conversazione, l’autrice ha risposto ad alcune domande.
“Pazienti Smarriti” è un’opera prima?
Come romanzo, sì. Ho partecipato ad opere collettive e scritto racconti. 
Il romanzo nasce da una sua esperienza personale: è del tutto autobiografico?
In larga parte lo è; all’inizio la mia intenzione era di scrivere sulla malasanità, ma più andavo avanti e più mi prendeva la mano il sentimento.
È certamente un libro di denuncia, visto quello che è capitato a mio fratello nell’arco di due anni e di quello che succedeva ad altri degenti. Naturalmente la stesura di un libro richiede a volte adattamenti oppure non si può parlare di cose di troppo personali, per rispetto di noi stessi e delle altre persone che vivevano la malattia del nostro caro.
Le vicende vissute nel mondo ospedaliero sono tutte vere, però, anche se qualcosa è stato “edulcorato”: l’argomento che ho trattato, per il lettore può essere difficile da affrontare, quindi non ho lasciato spazio alla crudezza della sofferenza, anzi non ho nemmeno nominato il male di cui era affetto mio fratello – anche se si intuisce molto bene quale fosse – perché nessuno ama sentire parlare di malattie.
Ci terrei inoltre a sottolineare che la narrazione di “Pazienti Smarriti” è tutta al femminile; eravamo solo donne a combattere in prima linea: mia cognata, le mie nipoti e io. Ettore ci definiva “l’esercito della salvezza”, il suo esercito. Ancestralmente i compiti di pietas familiare sono sempre stati a carico delle donne.
Come ha scelto il titolo del libro?
Mio fratello all’Ospedale Cardarelli fu letteralmente smarrito come una valigia: sembra una cosa inventata eppure non lo è. Certo, quest’episodio l’ho trattato in modo surreale, quasi con ironia, anche perché bisogna dire con forza che non può accadere che un paziente venga smarrito come un pacco in una struttura sanitaria.
La scrittura aiuta ad elaborare il lutto?
La scrittura ha senz’altro un valore terapeutico; consente di rimettere in ordine i ricordi, che altrimenti ristagnerebbero se non fossero rivissuti. In questo senso la scrittura può alleggerire la pena delle perdita di una persona cara. Levi in “Se questo è un uomo” scrisse della Shoa ma certamente non si liberò della sofferenza subita.
Qualunque tragedia viene però superata con il gran dottore che è il tempo; certo il dolore rimane, specialmente in talune occasioni … Resta comunque il ricordo dolcissimo della persona che ci ha lasciati.
Progetti letterari per il futuro?
Ho in preparazione un altro libro, ma per scaramanzia non ne parlo; posso dire solo che tratterà di un argomento di tutt’altro genere.
Per il momento continuo il giro di presentazioni di “Pazienti Smarriti”; la prossima, che probabilmente sarà quella conclusiva, si terrà al Vomero, il luogo felice di infanzia e adolescenza. Mi pare il posto ideale, in linea col messaggio di speranza che ho voluto far passare col mio libro. È vero, la vicenda di mio fratello Ettore si è conclusa in modo tragico, ma oggi in molti casi il suo male può essere guarito.
Bisogna perciò confidare nella ricerca scientifica, sostenerla, perché altrimenti tutti gli studi, tutti i messaggi che si vogliono far arrivare a coloro che ne ha bisogno rimarrebbero sterili. Invece devono dare coraggio a chi disperato crede di non averne più