Sonatin for a jazz funeral

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Spesso si vuole includere l’arte in un casellario ben definito, darle etichette, creare una tassonomia di merito dove il nome stesso di arte per taluni dovrebbe riguardare manieristicamente solo i maestri e i loro epigoni.
Ma se è vero che noi siamo lo specchio dei nostri tempi e della nostra cultura, di chi ci ha preceduto e di chi ci vive attorno, quello dell’etichettatura diviene un compito arduo e quanto mai inutile.
Meglio accettare il messaggio artistico per quello che è, lasciamo che questo ci tocchi, ci colpisca, ci emozioni, faccia di noi più uomini e meno entità biologiche.
Lasciamo che l’arte e in questo caso la musica ci scorra dentro, depurandoci delle tossine ideologiche e ci permetta di godere il mondo per quello che è.
Lo Speaker ha incontrato Luigi Impagliazzo, cantante di Sonatin for a jazz funeral, un gruppo di rock alternativo ai canoni classici di questo eterogeneo mondo musicale.
Ecco la sua intervista, per conoscere un aspetto della nuova musica che s’affaccia all’ombra del Cratere.
Iniziamo dal nome innanzitutto, piuttosto criptico no?
Più che criptico si presta come gran parte delle cose che facciamo a un interpretazione, a un’attività interattiva.
Per noi non è importante semplicemente avere un pubblico ma una comunità che condivida quello che facciamo, che lo interpreti, lo critichi, che interagisca con esso. Il titolo manifesta proprio questo, la volontà di creare sempre e comunque una relazione.
Chiunque vuole trasmettere qualcosa deve contenere innanzitutto differenti messaggi così da poter creare allo stesso tempo una possibilità di chiarezza e una di oscurità, una possibilità di condivisione, un messaggio che si possa recepire e percepire su più livelli.
Sonatin è soprattutto il film di Takeshi Kitano, che a sua volta è ispirato alla composizione classica occidentale che è la sonatina, che è divisa in tre parti quindi già dal nome c’è l volontà di descrivere un modo e un mondo compositivo articolato.
Così come la sonatina anche la maggior parte dei nostri pezzi sono articolati in più parti. Abbiamo quindi l’oriente, con il buonoTakeshi Kitano, abbiamo l’occidente con la sonatina classica …
… e poi l’America
Il jazz funeral viene dall’America, l’America più contaminata, l’America creola che vede nel funerale jazz …
… una visione sincretica …
… Esatto! Ma anche una visione che unisce vita e morte allo stesso tempo. Perché il funerale jazz è il modo con cui i musicisti di New Orleans salutano i loro morti.
Avete già fatto un album? 
L’album è uscito una ventina di giorni fa, è il nostro primo disco ed ha il nome del gruppo.
Sotto quale etichetta pubblicate?
La nostra è una nuova etichetta, si chiama “Tipping the velvet”, è una coproduzione con la Monochrome Sounds and Visions. Si tratta di una coproduzione perché qualche anno fa vincemmo uno dei più importanti festival di musica rock alternativa e vincemmo la produzione di metà disco, un EP, un disco con quattro o cinque canzoni. Poi si è unita anche la produzione di “Tipping the velvet” e, cosa molto rara, siamo riusciti a ad avere un album completo.
È un concept album o una raccolta dei vostri primi brani? 
No, ma ogni nostra canzone è una concept track, ogni brano contiene una sua storia, una sua identità, un suo viaggio. L’album, se dovesse avere un concept sarebbe quello della vita.
E se dovessi scegliere un brano da questo album per sintetizzare la vostra musica …
No, è impossibile, la nostra cifra stilistica è ricavabile da tutte e dieci le nostre canzoni e non basterebbero per concluderla, sono dieci concept!
Chi sono gli altri componenti del gruppo?
Veniamo da esperienze differenti, il chitarrista Gennaro Cotena, Gen per gli amici, è un appassionato di jazz, oltre ad esserne uno studioso. Il bassista invece si chiama Pierluigi Patitucci e porta con sé l’esperienza del rock duro degli anni novanta, è la matrice rock del gruppo. Il batterista, Maurizio Milano, è invece molto più vicino alle avanguardie. 
Ma al di là delle etichette, come vi definireste, come definireste la vostra musica?
Io più che altro rinvierei all’ascolto, per dare una chiave di lettura della nostra musica.
Una musica fatta di contaminazioni!
Credo che sia abbastanza inevitabile oggi, siamo nel post-postmoderno, c’è sicuramente tanta world music, c’è tanta contaminazione del linguaggio, c’è tanta contaminazione linguistica, ci sono parti in spagnolo, in inglese, ce ne sono anche in giapponese!
Cosa significa fare musica, e un certo tipo di musica, sotto al Vesuvio?
Noi, per tutta una serie di motivi, non proviamo a non sentire il limite, se c’è, noi già esprimendoci in inglese creiamo una sorta di separazione dai nostri luoghi che sono semplicemente la casa, il tetto sotto cui dormiamo. Il nostro scopo è quello di fare una musica che vada al di là di tutto ciò.
Esiste un contatto con le vostre origini partenopee?
Nel nostro caso, se c’e, non è voluto; l’approccio alla musica popolare c’è, ma a quella dei differenti popoli. Per esempio in uno dei pezzi dell’album, intitolato So go è ispirato alla musica giapponese, altri brani trovano origine in determinate ritmiche nord africane, altre sono essenzialmente di matrice anglosassone, il rapporto con Napoli c’è, perché Napoli è una città del mondo e io sono un abitante del mondo.
(Foto: Copertina)

Ciro Teodonno