Il racconto: Ad Interim – giovani precari

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Una storia dei nostri tempi o un’analisi spietata della nostra realtà? È difficile dirlo ma nella sua disarmante semplicità questo racconto racchiude tutta la drammaticità di questi nostri anni di crisi, anestetizzati da un finto benessere e privati dei diritti più elementari.
Una storia di tutti i giorni e di tutte le vite, il racconto del ragazzo e la ragazza della porta accanto che cercano prospettive di vita, quelle che i loro genitori hanno forse avuto e che non hanno saputo trasmettergli. Una vita che prima o poi li fagociterà nell’illogico Sistema.

Ciro Teodonno

 

Ad Interim – giovani precari  

 
Francesco e Giulia scesero dall’autobus 175. Fermata Garibaldi.
A piedi, fino al corso Arnaldo Lucci, raggiunsero l’agenzia di lavoro My Job.
Fuori, in fila, una ventina di persone con curriculum alla mano aspettavano che qualcuno da dentro alzasse la serranda.
Erano tutti giovani, probabilmente diplomati o freschi laureati. E poi un cinquantenne, con la faccia triste, che per continuare a sperare aveva riempito l’anagrafica della sua vita professionale con un mucchio di palle e finte esperienze lavorative.
Faceva freddo e tirava vento.
Erano le nove passate e nessuno veniva ad aprire.
Cominciò a venir giù qualche goccia di pioggia quando la saracinesca si alzò accompagnata da un suono metallico e la porta d’ingresso di vetro si spalancò.
Una giovane donna stretta in una divisa rossa annuncio: «Per info, prima postazione a sinistra, per colloqui ultima postazione a destra».
Non si prendevano numeretti, così, una volta dentro, si litigava per chi doveva essere il primo, poi il secondo e così di seguito.
Il cinquantenne, con la pancia gonfia e il collo adiposo, s’impose su tutti.
Si accomodò a destra, e venne via dopo tre minuti scarsi di colloquio. La faccia più triste di prima.
All’incirca venti culi sedettero sulla sedia a destra, uno dopo l’altro, tutti per meno di tre minuti.
E questi sarebbero colloqui? pensarono Giulia e Francesco, scambiandosi uno sguardo, come se avessero letto l’uno nella mente dell’altro.
Quando fu il suo turno, Giulia fece un lungo respiro e invocò Dio.
«Prego» fece l’impiegato, stretto in un vestito elegante rigato e la cravatta rossa.
«Buongiorno.»
«Documenti e curriculum, per favore.»
Giulia allungò il fascicolo di fogli stampati A4.
Il giovane impiegato, con la pelle del viso lucida e la testa rasata come la buccia di un kiwi, esaminò il materiale. «Laureata in Conservazione dei Beni Culturali… »
«Con indirizzo archeologico» specificò Giulia.
Qualche secondo di totale silenzio. Un incrocio di sguardi.
«Sebbene le case degli antichi romani se ne cadano a pezzi, pare proprio che la richiesta di specializzati in archeologia sia pressoché nulla. Non servite al momento».
Giulia rimase un attimo spiazzata. Ma guarda questo!
Poi replicò: «Se oggi abbiamo gli acquedotti, il sistema fognario e tutto quanto il resto lo dobbiamo agli antichi romani. E se conosciamo molte cose di ciò che hanno realizzato è perché evidentemente c’è stato e continuerà ad esserci qualcuno che si è curato di preservarle.
Per non parlare delle civiltà… »
L’impiegato sfoderò un sorriso Mentadent White Now.
I denti bianchissimi e lucidi.
La interruppe: «Non dico questo… no non mi fraintenda. È solo che in questo momento non ci sono fondi destinati alle attività di conservazione di beni archeologici. Tutto qui. Provi presso qualche cooperativa, magari ne viene fuori qualcosa. Comunque i suoi dati verranno inseriti nei nostri archivi, non si sa mai… Grazie».
Le tese la mano.
Stronzo. Giulia ricambiò indignata.
Dopo di lei toccò a Francesco che, seduto con il busto schiacciato allo schienale, tamburellava continuamente le gambe e si prendeva a morsi le unghie.
«Mi sono appena laureato in Economia e Commercio. Mi piacerebbe lavorare presso qualche azienda importante …»
L’impiegato lo lasciò parlare per un minuto e mezzo. Né un secondo di più né un secondo di meno.
«Le spiego subito come sta la situazione» chiarì, con una faccia da funerale.
«Il mercato del lavoro è saturo, la richiesta di laureati in economia è ai minimi storici. Le do un consiglio, che tra l’altro va contro i miei interessi: provi a prendere in considerazione l’ipotesi di un’attività tutta sua, che ne so… uno studio contabile».
«Ma io sono venuto qui per cercare un lavoro di tutt’altro tipo, alle dipendenze di qualcuno insomma».
«Allora dovrà aspettare, non so nemmeno per quanto. Questo è tutto».
I tre minuti erano scaduti.
«Spero di rivederla.» Con una mano sul cuore. «Davvero.»
Che patetica sceneggiata! Francesco salutò e raggiunse Giulia, che lo aspettava fuori.
«Ma che esistono a fare le agenzie di lavoro?» commentò disgustata. «Ma l’hai sentito quello? “Al momento non servite”… Puh!»
«Non potevamo nascere in epoca peggiore guarda… » concordò l’altro.
Per smaltire l’indignazione i due fidanzati decisero di fare una passeggiata per il centro storico, attraversando il Rettifilo. La pioggia aveva smesso.
Napoli era bella ma caotica. I marciapiedi affollati e pieni di venditori ambulanti del nord africa che speravano di vendere la loro merce: borse, occhiali e cappelli griffati. Tutta roba falsa di ottima fattura.
C’erano quelli che vendevano i dvd, i giochi per la Play Station. E quelli che se ne stavano impalati con in mano il berretto capovolto a chiedere l’elemosina.
Qualche barbone, una vecchietta con un carrozzino pieno di coperte e vecchi stracci e una famiglia di zingari rom che separava da un cumulo di spazzatura roba da utilizzare e roba da buttare.
«Anche loro tramite agenzia?» osservò Francesco, ironico e pieno di disprezzo per chi le aveva inventate.
Come ci siamo ridotti!
I due fidanzati giunsero al centro storico.
Nemmeno i soldi per un caffè.
Andarono un po’ in giro a vedere le vetrine dei negozi e salirono sull’autobus per tornare a casa.

 Sei mesi dopo…

Alla televisione, il telegiornale delle quattordici stava illustrando i dettagli della nuova manovra finanziaria studiata dal governo.
Poco prima, in un’intervista, il nuovo ministro del Welfare aveva annunciato l’intenzione di abolire ogni forma di contratto di lavoro precario.
Questa è una buona idea!
Francesco stava mandando giù una forchettata di polpettone quando il telefono squillò.
«Francesco è per te» lo chiamò suo padre.
«Pronto? Si, sono io… domani a che ora? Va bene… Ci sarò… Grazie».
Il giorno dopo Francesco si recò nuovamente alla My Job. Questa volta per discutere di una proposta di lavoro.
«Buongiorno» salutò l’impiegato, che non si ricordava per nulla di Francesco.
«L’abbiamo chiamata per offrirle un lavoro presso la Metal s.p.a. Una società americana che ha una filiale in Italia nel Beneventano. È pratico della zona?»
«Si».
«Oltretutto è patentato, vedo dai suoi dati. Conosce la Metal? »
«No».
«Costruisce serbatoi. Quelli per l’acqua, il gas, per le fosse settiche… Le proponiamo un contratto della durata di sei mesi. Un CO.CO.CO.»
«Ne ho sentito parlare».
«Un contratto a progetto. Un’opportunità preziosa, secondo il mio modesto parere. È un lavoro come contabile. Cosa ne pensa?»
Francesco rispose schietto: «Sinceramente non credo di avere molta scelta. Per me va bene».
«Inizierà lunedì. L’orario è nove – diciotto e trenta. Un’ora di pausa pranzo. Dal lunedì al venerdì».
«Va bene».
«Questo è il contratto».
Tirò fuori un fascicolo di una decina di fogli. «Una bella firmetta qui… e qui… e qui ancora».
Solo qualche giorno dopo si rese conto di quello che aveva fatto: aveva accettato di lavorare senza avere diritto alle ferie, all’indennità per malattia e al versamento dei contributi nel fondo previdenziale.
Niente tredicesima e quattordicesima.
Era diventato un servo della gleba.
 
Terme Centrali e Casa di Marco Lucrezio.
Casa del centenario e infine Casa dei Gladiatori.
Una classe di trenta ragazzini di scuola media seguiva Giulia tra le pietre e le colonne romane dell’Antica Pompei.
Era la sesta guida in tre giorni. Giulia era esausta. Sempre la stessa cosa. Ma era il meglio che fosse riuscita a trovare. Quindici euro a itinerario, escluso possibili mance.
Il lavoro di guida turistica non le piaceva. Ma nell’attesa che qualcuno la chiamasse e le dicesse «Ciao Giulia, vorresti venire con noi per eseguire degli scavi? Durante i lavori di scavo di una metropolitana è stata ritrovata un’antica scialuppa…», doveva arrangiarsi.
E il tempo passava…

 Un anno dopo…

 Giulia e Francesco stavano mangiando un panino da Mc Donald.
Poi avrebbero visto un film al cinema.
«Vorrei tentare … » diceva Giulia, con la bocca sporca di maionese.
«Sei mesi sono tanti» ribatté Francesco. «Troppi.»
«Non ho alternative. Credo sia una buona occasione. Almeno ci provo.»
«Dublino è lontanissima, e poi se non ti vedo sto male. Come faccio?»
«Pazienza, amore… pazienza».
E intanto addentò un altro pezzo di panino.
«Non è colpa mia né tua se questa società di merda non ci offre un cazzo di niente. Guarda come ci siamo ridotti… tu lavori dodici ore al giorno e non ti pagano nemmeno lo straordinario, io porto in giro antipatici ragazzini per le rovine di una città sepolta a quindici euro, trenta euro al giorno se sono fortunata.
Non abbiamo uno straccio di contributo, tra quarant’anni quando andremo in pensione, se ci andremo, camperemo con ottocento euro al mese in due. Tanto vale rubare».
«E cosa vorresti fare? Suicidarti? È la vita, ce la prendiamo così come viene».
«Io non ci sto. L’Italia non fa per me. Meglio andare all’estero.»

 Sei mesi dopo…

Giulia e Francesco si erano lasciati.
Disperatamente soli.
Lei a Dublino a rispolverare fossili dalla terra, lui a falsificare bilanci e a fra quadrare i conti di un’azienda come la Metal che da lì a qualche mese sarebbe fallita.
Il poveretto sarebbe ritornato disoccupato… e intanto l’Italia andava a pezzi.
Ad interim… storia di un precariato sbagliato.
(Fonte foto: web)

Fabio Giampaglia