Mesagne, la strage, il colpevole

Ad un certo punto il “Sacrissimo” dovette intervenire. Come capo della Coroneria locale teneva molto alla sua autorità: era anziano, aveva i capelli bianchi e non voleva far vedere che non  parlava perché spesso non sapeva cosa dire; e poi vinceva il suo allenamento a non far vedere che aveva paura.
Ed era la paura che l’aveva fatto arrivare a quella età e a diventare capo. Ma era meglio che gli altri non lo pensassero nemmeno… Aveva alzato il braccio e tutti si tacquero. Parlava raramente Don Gesué; e se parlava voleva essere ascoltato. “Ave ragione (ha ragione) il “Sacrista” don Memé, (e qui una pausa con uno sguardo, acquoso e slavato, sul tizio, un mingherlino  dal baffetto nervoso), s’ha da dare un segnale forte e potente a questi cornuti dello stato… Mo’ ci siamo riorganizzati e avemo fatto sta specie di accordo, come ci hanno suggerito gli amici  de Trapani,  tra noi, e dobbiamo rispettare  questa nuova Coroneria Suprema. E perciò non possiamo fare come prima …Però ‘na botta grossa ci vuole.” E qui silenzio.
I silenzi del Sacrissimo erano più eloquenti di tante parole. C’era sempre un’aria di minaccia in quello sguardo vecchio e putrido del capo Giacomo Apostolo. Non era facile restare a capo di una Coroneria,  una delle circoscrizioni riconosciute  di potere della Sacra Corona Unita, e addirittura diventare uno degli Apostoli, uno dei componenti della Sacra Cena, quella che la mafia chiamava la Commissione, il cui capo supremo e assoluto era chiamato il “Cristo-in-Croce”: ma nessuno doveva sapere chi era o nominarlo ad alta voce o per telefono…
Qui c’erano i capi delle singole cosche della zona, chiamati Sacristi: ma la Coroneria di Mesagne era particolare, perché qui era nata la prima, storica S.C.U: ei suoi appartenenti ne erano fieri; anche se non lo dicevano a voce alta, per paura di ingelosire le altre circoscrizioni. Anche se oggi era tutto cambiato e l’organizzazione in Commissione, aveva reso il potere più articolato e in grado di concertarsi  e di darsi una mano, scambiarsi i piaceri, evitando, per quanto possibile, di farsi guerre inutili e aumentando invece la collaborazione  strategica e la penetrazione fuori  dei confini della SCU.
In questo, purtroppo per  i tradizionalisti della Sacra Corona, i cugini della mafia avevano ragione  e portavano l’esempio di quelli di Casal di Principe in Campania, che, grazie a questa organizzazione, erano diventati potentissimi: così pensavano con rosico e rabbia  tutti in cuor loro. Non lo dicevano ad alta voce, nemmeno tra di loro in quella riunione, per non dare soddisfazione ai “cugini” di Trapani, che lo sarebbero venuti a sapere sicuramente …”Però quello che è troppo è troppo. Dovevano fare qualcosa, per far vedere a tutti, affiliati e non, Sacristi, Coronati (i picciotti d’onore della mafia) e semplici “Uniti-alla Croce” (il primo grado di adesione esterno alla SCU), chi comanda “veramente” a casa loro…”: questo era il nocciolo della riunione, anche se ad alta voce non parlavano delle “vere” motivazioni.
Questo era il senso del silenzio. Dovevano fare un gesto clamoroso, che facesse capire a tutti, soprattutto agli “amici” “con chi avevano a che fare, e che se fidavano de fa’”. Ma non potevano fare un gesto troppo clamoroso, che li avrebbe isolati. Don Gesué guardava gli astanti come se fossero un manica d’incapaci: ma questo è anche fare il capo, far credere agli altri che “loro” sono meno in grado e all’altezza dei compiti, di lui.
Dal fondo si leva la vocina di don Ciccio, uno dei “sacristi” da poco nominati: ed era stato proprio  Don Gesué a indicarlo: lo odiava visceralmente, perché era una lenza ipocrita e falsa e lo voleva tenere sotto gli occhi per controllarlo meglio. Lo sentiva  animato dagli stessi suoi sensi di cattiveria e di perfidia: al di là dei sorrisini, ne avvertiva la medesima scia putrida, che qualche volta sognava  che lui, come un lumacone, lasciava inavvertitamente  attorno a sé… “Si potrebbe creare un Attentatuni (così i siciliani indicavano un grossissimo attentato, come  con Falcone), ma non dicendo che siamo stati noi…””E se non si sa che siamo stati noi”, gli dà sulla voce, felice di averlo preso in castagna, il “baffetto fremente”, a che c…serve? “. “Ma è proprio questo il punto: si deve pensare che “potremmo” essere stati noi: a noi basta solo che si pensi..Anzi è più efficace; mette più in crisi, aggiunge panico ancora maggiore . Colpiremo in modo feroce un obiettivo assai simbolico: che so? Proprio la scuola “Morvillo Falcone”, in una data anch’essa simbolo: penserei proprio all’anniversario dell’”Attentatuni”e diremo che non siamo stati noi…anzi saremo i  primi, magari dal carcere, a prendere le distanze ed esprimere condoglianze alle vittime e forte sdegno per la viltà dell’episodio: le solite manfrine. I nostri cugini, e qui un sorrisetto storto, capiranno troppo bene”, riferendosi alle stagioni stragiste “senza mandanti o rivendicazioni” della mafia negli anni 90: “e sono proprio loro che ci hanno insegnato l’efficacia di guerra di operazioni del genere..”.
Don  Gesué lo guardava sempre con l’occhio di triglia, impassibile: ma dentro di sé fremeva: “Lo stronzo l’ha pensata bene; mannaggia che l’idea non è venuta a me…”; poi, ad alta voce: “Magari uno che fa questo per follia, oppure è un comunista… Ci sta qualcuno che possiamo costringere?, che ha grossi debiti, magari non troppo risaputi, o sgarri con noi: glieli abbuoniamo e gli salviamo la famiglia…”. “Si ce n’ho uno a Copertino, che pure sta andando a dare con la testa …”, fece don Ciccio.
Giovanni Vantaggiato, di Copertino (Brindisi)  si è reso reo confesso della strage di Mesagne. Restano fortemente non credibili i moventi, e ignoti gli eventuali complici e mandanti.

                                                                         Francesco “Ciccio” Capozzi