Portule, montagna d'incanto

PortuleLa più alta montagna dell’Altopiano d’Asiago, 2.308 metri sul livello del mare, domina la Valsugana trentina e il nostro meraviglioso altopiano.
Alle sue pendici un folto bosco di abeti sale fino a quasi 1800 metri, poi il larice prende il suo posto emanando un fascino indescrivibile con il verde chiaro della vegetazione primaverile, il dorato della piena stagione di crescita; infine si infuoca a settembre, prima del cadere degli aghi in autunno, quando si prepara per il sonno invernale.
Sopra il larice vive il pino mugo, dai rami folti e intricati, odoroso di resina. Le sue pigne, i suoi frutti appena sbocciati, sono raccolti per produrre il mugolio, ottimo per curare le infiammazioni della gola, tossi bronchiali; si usa anche per infusione nella grappa, conferendole un sapore forte tipico della resina di mugo.
In Alto Adige qualcuno distilla la ramaglia fresca, primaverile, per ricavarne l’essenza di pino, usata nella preparazione di bagni schiuma e profumi.
In realtà questa pianta, che una volta i pastori carbonari utilizzavano per fare il carbone di legna, sta soffocando la montagna, invadendo ogni spazio libero, togliendo anche l’habitat ai tetraoni, che si riducono di numero, anno dopo anno, perché non riescono più a trovare cibo sufficiente nelle poche radure rimaste.
La Forestale dovrebbe prendere serie misure per il contenimento della propagazione del pino mugo, effettuando scelte di disboscamento ad hoc, al fine di ridare spazi vitali agli animali stanziali e alla montagna stessa, meta di molti escursionisti.
Portule, un nome magico per gli appassionati di montagna.
Quando si sale in vetta, fin dalla prima volta ci s’innamora di lei, delle sue cime crestate, delle radure che guardano verso est dove altre montagne bellissime le fanno da damigelle, dei suoi canaloni sassosi, dove i più bravi e spericolati in inverno scendono con gli sci o la tavola, lasciando numerose tracce nella neve.
Un appassionato sciatore, fortissimo scalatore amico mio, Giorgio, ha la forza ed il coraggio di risalire le sue pendici più volte il giorno in inverno, esaltandosi poi nell’ardua discesa.
Spesso sale sulla cima della montagna e scende verso lo scosceso versante della Valsugana, giù per i canaloni molto innevati, con salti notevoli ed un dislivello di più di 1200 metri.
Non soddisfatto, applicate le pelli di foca sotto gli sci, risale la ripida parete per ripetere l’esperienza. Giorgio è una forza della natura, anche se un po’ pazzo e spericolato … ma un po’ lo invidio, a dire il vero.
L’inverno di qualche anno fa si è messo alla ricerca dell’orso, il famoso “Orso Dino” dell’Altopiano, nei boschi alle pendici del Portule, dei Larici e verso cima Vezzena, dove si erano trovate le sue orme.
Sicuro di trovarlo, per giorni ne ha seguito le tracce, finché finalmente ha trovato la carcassa di un cervo, ammazzato dall’orso qualche tempo prima.
Il cervo era un bel maschio, già in parte divorato. Giorgio ha ben pensato di reciderne la testa e portarsi a casa il trofeo mettendolo nello zaino sulle spalle, con le corna ben in vista.
Riprende il cammino seguendo le tracce e via, avanti, alla ricerca dell’orso, che in realtà non era molto lontano.
Ed ecco l’incontro: in mezzo ad un piccolo pianoro fra gli alberi lo vede, ritto sulle zampe posteriori che lo fissa. Alla sua vista l’orso prende la rincorsa per  l’attacco.
Sorpreso, ma non del tutto, Giorgio scatta due foto prima di mettersi ad urlare al suo compagno di ricerca, un amico di Vicenza che lo accompagna: «Ci attacca, stavolta ci mangia, scappiamo!»
Chi abbia avuto più paura in quel momento non si può dire. Anche l’orso si era spaventato, probabilmente perché le corna del cervo sulle spalle di Giorgio erano cambiate, le vedeva più grandi e si muovevano, o forse perché sentiva le urla dei due. Fatto sta che “Dino” ha girato su se stesso e si è allontanato, lasciandoli sgomenti, pallidi e pieni di panico.
Portule, la montagna fiorita.
Nei primi giorni di giugno, quando l’ultima neve resiste nel fondo delle forre, i suoi pendii diventano un giardino tappezzato da mille colori: fiori piccoli e profumati, bianchi, gialli, rosa, blu, erbe aromatiche, genziane, rododendri, stelle alpine, tutto per incanto sboccia e la rende la montagna più bella del mondo.
Il mio pensiero va molto lontano a tanti e tanti anni or sono, quand’ero bambino, avevo più o meno sette anni. È sabato pomeriggio di fine agosto, una giornata splendida di sole. Domani, primo settembre, inizia la caccia in alta montagna.
La caccia in quegli anni era gestita dal buon senso, esclusivamente dal Direttorio di sezione, eletto dai cacciatori del territorio; non come adesso che, a parte l’alto costo per i permessi, ci vogliono un avvocato, un geometra ed un ragioniere a fianco.
L’apertura della caccia teneva gli animi in subbuglio, come fosse il primo appuntamento con l’amata, l’atmosfera elettrizzata era palpabile. A casa nostra i preparativi fremevano. Papà aveva dato il consenso affinché anch’io, l’ultimo di nove figli, potessi accompagnare Tito, mio fratello più grande, alla caccia. Il giorno dopo saremmo andati sul Portule.
Caricata la vecchia Lancia Augusta con materassi, cuscini e coperte, vivande e vino, si parte per la grande avventura. L’auto, oramai vecchiotta, arranca sullo stretto sentiero e l’acqua va in ebollizione. Ogni tanto ci dobbiamo fermare per aggiungerne e raffreddare così il radiatore.
Sono circa le cinque di sera quando arriviamo a Bocchetta Portule. Gli altri amici di Tito avevano raggiunto il luogo d’incontro con le moto.
Andrea, che aveva sposato Giorgia una bella ragazza del paese, aveva la vespa 125 e nel sellino posteriore lo accompagnava Marcello, dell’albergo Paradiso.
Armando, il contadino dei “Rela”, aveva invece la moto Guzzi 175 e nella sella posteriore stava Scarpa, che non era cacciatore ma di compagnia: il suo compito consisteva nel portare i viveri e la selvaggina, era un supporter molto utile.
Dimenticavo i cani da ferma. Noi avevamo Till, bravissimo pointer; viaggiava nel portabagagli dell’auto mentre gli altri amici portavano i loro cani sulla moto, in braccio al passeggero o davanti, nello spazio di carenatura della vespa.
Dentro la galleria di Bocchetta Portule i ragazzi avevano già acceso il fuoco e fatta provvista di legna per la notte. Preparati i giacigli vicino all’apertura che guarda la valle si cena in allegria. Il vino scorreva abbondante, a tutti loro giovani sani e baldanzosi, piaceva bere parecchio, era anche un modo per scaldarsi. Infatti, il freddo della notte cominciava a farsi sentire.
Fattosi buio ci mettiamo a dormire ma non passa un’ora che si odono dei rumori all’imbocco della galleria. Subito sveglia generale. Nelle vicinanze ci sono i pastori con il gregge, probabilmente qualche pecora cerca riparo e s’intrufola nella galleria, o il pastore cerca di farci paura.
Il più coraggioso allora prende un tizzone ardente dal fuoco e va a vedere, non trovando nulla. Si torna a dormire ed ecco che mezz’ora dopo altri rumori, altra sveglia, altro giro: nulla, non c’è niente di nuovo.
Al rientro uno chiede un goccio di vino, un altro lo imita e così il fiasco fa il giro della compagnia, naturalmente io non bevo. Così è andata avanti tutta la notte, sempre all’erta, per i rumori ricorrenti nella caverna e sempre col fiasco che girava.
È quasi l’alba quando ci svegliamo – per modo di dire – e la compagnia allegra, o meglio quasi ubriaca, si rimette in sesto con un caffè forte, un pezzo di pane e formaggio, una stiracchiata e alé, è ora, tutti fuori.
Sta albeggiando, dobbiamo esser i primi a raggiungere la zona migliore di caccia. Già i primi fari delle moto d’altri cacciatori s’intravedono sulla strada del Portule, quindi c’incamminiamo in fretta.
L’alba è un’esplosione di colori: blu, azzurro, rosa, che è anche il colore più forte, più intenso.      Mi viene in mente il nome di mia sorella Albarosa: certamente papà, gran cacciatore e uomo romantico, ha rubato all’alba del Portule il nome per una delle sue figlie.
La giornata inizia bene: nelle “buse”, grandi cavità naturali che sono presenti nella montagna, i cani scovano e fermano dei galli forcelli e delle pernici bianche, allora erroneamente chiamate Francolini bianchi credendo fossero imparentate con il Francolino di monte.
Il carniere portato da Scarpa è ben impinguato.
Verso mezzogiorno sento il bisogno di dormire, non riesco a reggermi in piedi. Tito allora mi fa sdraiare vicino ad un grosso masso che mi proteggerà dal sole, con il suo giubbotto mi copre, chiudo gli occhi e mi addormento subito.
Sognando rivivo la caccia del mattino, i forcelli che partono veloci, già fermati dai cani che si dimostrano bravi, ben addestrati, i cacciatori che sparano. Gli animali colpiti si fermano un attimo nell’aria per poi cadere inermi. La soddisfazione dei cacciatori è grande nel rimirare il selvatico abbattuto, i colori delle piume bianche, nere, blu indaco, le ciglia rosse, gli speroni delle zampe per smuovere il terriccio in cerca di radici, di vermetti succosi e nutrienti con cui nutrirsi, la coda a forcella che sarà un trofeo da esibire sul cappello da caccia.
Mi sveglieranno verso le tre del pomeriggio, nel bel mezzo del sogno, appagati perché erano riusciti a cacciare anche delle quaglie di passo che si fermavano lassù.
Si ritorna a casa, tutti felici, soddisfatti e stremati dall’avventura eccitante che abbiamo vissuto, sotto un sole ancora estivo.
È stata la prima di tantissime giornate trascorse sulla montagna d’incanto che mi ha fatto innamorare, e dove quando sarà il mio tempo, andrò a riposare: il Portule.

 Gilberto Frigo, l’uomo del nord