I segreti di Osage County

I segreti di Osage CountyOsage County, Oklahoma: un posto sperduto delle grandi pianure, dove le donne della famiglia Preston si riuniscono attorno alla matriarca che non sta bene, ma che non cede sui suoi modi autoritari di essere.
Tratto da un testo teatrale di successo di Tracy Letts, che ne ha curato la sceneggiatura, è diretto da John Wells. Il film (Usa, ‘13) ha pregi e i difetti di un’opera desunta da un testo teatrale. Tuttavia, a mio avviso, i pregi sono più consistenti.
La regia ha accompagnato la messa in scena delle contraddizioni dei personaggi, non solo attraverso il gioco di contrapposizione verbale, ma anche con la sua spazializzazione.
La casa è serrata nel suoi spazi fisici che sono come a tenuta stagna: il caldo appiccicoso di agosto, mese che è richiamato nel titolo originale del film e della pièce teatrale, ne dà quel senso di asfissia e di oppressione.
È una tradizione, una quasi ininterrotta ed ereditaria sequenza di compressione che, in nome dell’amore materno, impone la sua personalità sulle figlie: così faceva la madre della matriarca, così fa lei.
Tra le sue tre figlie solo Barbara, che ha una personalità forte e definita, le resiste e, sia pure con alterne fasi, la rintuzza: le altre due tendono a fuggire; ma la loro fragilità è evidente. Siamo dalle parti di Tennessee Williams e della drammaturgia  familistica.
Ma è un film ancorato alla contemporaneità, nonostante le fattezze classiche della sua impaginazione: e ci parla dell’insussistenza, limitatezza delle personalità maschili, nelle aggregazioni familiari; e di come, se queste hanno avuto un qualche successo e riuscita nella società, è solo grazie alle leonine personalità delle donne che ci stanno a fianco, che si sono spese duramente e nell’ombra per il successo dei loro uomini. Che poi regolarmente hanno preferito alla piena maturità delle loro compagne, divenute decisamente ingombranti, più svelte e fresche pollanchelle; meno problematiche e sicuramente meno in grado di cogliere le loro mediocrità.
È questo sia il personaggio di Meryl Streep, la matriarca, che di Julia Roberts, Barbara, alle prese col suo divorziando e mediocre, anche se intellettuale, marito (Ewan McGregor).
Devo dire che di tutti gli attori, di una bravura collettiva mostruosa, mi ha sinceramente colpito la forza di Julia Roberts.
Mentre della Streep non si può che restare affascinati dall’equilibrio perfido tra cattiveria, intelligenza, amorevolezza contorta e di come sia in grado di arrestarsi davanti all’esagerazione e all’autocompiacimento attoriale, della Roberts non era scontata la qualità della performance.
È un personaggio deciso, quasi brutale , nel suo cinismo smitizzante, che le ha permesso di sopravvivere, nel corso della sua formazione, al conflitto con la madre.
Ma le ha creato un “eccesso di anticorpi”, che la fa confrontare con la stessa eccessiva e dura chiarezza intellettuale con la pochezza  di suo marito: è profondamente e senza remissione la “figlia di sua madre”. E ne è dolorosamente consapevole: e questo rafforza l’intima sofferenza del suo porsi; ma ha la capacità e l’intelligenza di allontanarsi dalla tagliola del ricatto affettivo; anche a costo di lasciare la madre sola.
Noi assistiamo a questo sperpetuo di eredità caratteriali grazie ai dialoghi secchi, lineari: per niente pomposi, circonvoluti o intellettualoidi.
La fotografia del brasiliano Adriano Goldman, ha il nitore di una vivisezione a cuore aperto; mentre la scenografia del grande David Gropman, che ha lavorato anche coi migliori della storia del cinema Usa, utilizza i piatti e ininterrotti spazi aperti a controcanto dell’incombere delle memorie fisiche degli arredamenti.

Francesco “Ciccio” Capozzi