Sulla scrittura proustiana, la lezione di Baricco

Palladium lecturesNAPOLI – Si prende posto in sala con l’impressione di non sapere assolutamente a cosa si assisterà. Spiegare Proust a teatro è un’operazione che richiede più tempo di quello che ci si può ritagliare tra i tempi stabiliti. È il 15 novembre.

Sul palcoscenico un’atmosfera da aula universitaria. Una cattedra perfettamente al centro sulla quale si scorge un lume e qualche libro. Due schiere di allievi, una a destra ed una a sinistra aspettano qualcosa.

Poi arriva lui. Si siede ed il pubblico applaude rumorosamente. Come per un improvviso incantamento, ci si fida prima di sapere realmente a cosa ci si sta sottoponendo.

È il secondo appuntamento del ciclo di lezioni tenute da Alessandro Baricco al Teatro Nuovo di Napoli, dal titolo “Palladium lectures”.

Alla ricerca del tempo perduto (À la recherche du temps perdu) è senza dubbio l’opera più nota di Marcel Proust, anche solo per sentito dire.

Composta tra il 1909 e il 1922, è stata pubblicata in sette volumi tra il 1913 e il 1927. Ma è così nel suo complesso superba e maestosa che è impossibile approcciarsi al testo senza sceglierne un punto di partenza.

«Avete presente quelle vecchie governanti che fin da quando siete nati risiedono nelle vostre famiglie e non si sa bene quando e se andranno via?».

Baricco parte dall’immagine della cuoca della zia Léonie a Combray,  Françoise,  una che al giovane protagonista della Recherche doveva essere ben antipatica se per tutta la sua adolescenza ingegna espedienti per allontanarla. La vecchia domestica sembra ispirata alla figura reale di una governante di casa Proust, Céleste Albaret.

È una premessa efficace per giungere al cuore dell’analisi stilistica della frase proustiana. Baricco sceglie un  particolare luogo dell’immensa opera e ne illustra l’imponente cattedrale piano per piano, valutandone nel complesso l’aspetto stilistico e non omettendo giudizi personali.

Il periodare di Proust che tende all’accumulazione espressiva viene scarnificato dallo scrittore torinese che immagina il suo autore mentre mette in fila quei versi, compiaciuto per l’eleganza delle sue frasi, così ricche di oggetti, così pregne di ulteriori contenuti, da cui però non traspare alcuno sforzo espositivo nella stesura, quasi come se fossero state dettate da una necessità interiore.

«Io me lo immagino Proust che fa quella roba lì, così senza pensarci due volte. Io, se a stento dovessi scrivere solo una interiezione di quella lunghissima frase, andrei a dormire con la convinzione di aver scritto da Dio».

Baricco spiega che Proust utilizzava una tecnica a cassettoni. Realizzava una frase “armadio” al cui interno inseriva altri cassettini con informazioni aggiuntive, senza dubbio inutili da un punto di vista strettamente oggettivo o strutturale. Come una sinfonia, orchestrata da una complessa strumentazione, offre nella sua interezza la percezione di una melodia naturale, ottenuta senza fatica alcuna, le lunghe frasi dell’autore francese si giustappongono con morbida lievità. Gli si perdona anche la scelta di vocaboli, il cui senso non appare subito chiaro o lampante.

«Medio.. francamente non so perchè l’autore abbia utilizzato questo termine. ma sapreste voi trovare un termine più appropriato?».

Ad un autore come Proust tutto è concesso. In polemica contro lo stile essenziale dei naturalisti francesi, verso cui non indirizzò mai le sue simpatie. Proust credeva che la letteratura dovesse fornire non solo la rappresentazione scarna e utilitaristica della realtà ma aggiungere nel dettaglio anche la descrizione di odori, sapori, sentimenti. Tutto quello in grado di produrre un ricordo era ciò a cui tendeva il senso del suo scrivere e ricostruire.

Baricco sfoglia i volumi, racconta, indugia, analizza passi con il preciso intento di mostrare ciò che egli ha personalmente ritrovato in quella che per complessità architettonica è stata definita “L’oeuvre cathedrale”.

Gli scrittori sono ipersensibili, conservano e trattengono le impressioni e le sviluppano. Proust in particolare annotava tutto, anche mentalmente, con l’intento di riprodurlo, fargli acquisire una forma tangibile. La descrizione della casa di zia Léonie, il tè delle cinque, un viaggio in ascensore. Prendere il lettore e trascinarlo lì con sè, in un torbido vortice di oggetti che non gli appartengono ma che diventano suoi all’istante.

Viene in mente per associazione di idee una frase dello stesso Baricco, a proposito di un altro scrittore, John Fante, del cui capolavoro “Chiedi alla polvere” egli scrisse la prefazione nell’edizione Einaudi del 2004: «Forse le cose stanno esattamente così: quelli che vale la pena di amare veramente sono quelli che ti rendono estraneo a te stesso. Quelli che riescono a estirparti dal tuo habitat e dal tuo viaggio, e ti trapiantano in un altro ecosistema, riuscendo a tenerti in vita in quella giungla che non conosci e dove certamente moriresti se non fosse che loro sono lì e ti insegnano i passi i gesti e le parole: e tu, contro ogni previsione, sei in grado di ripeterli».

Proust è uno di quelli che sa trasportarti nel suo ecosistema personale, sospendendo la tua corsa anche solo per la durata della lettura. Non c’è niente che tenga a confronto. «Preoccupazioni quotidiane, problemi a lavori, litigi con tua moglie … Dimentichi tutto».  Il ruolo terrificante ma inequiparabile della letteratura, Baricco sa riassumerlo e lo trova perfettamente nella rocambolesca ma esattissima sovrapposizione della sintassi proustiana.

Si lascia la sala con la voglia inevitabile di riprendere la lettura della Recherche ma non solo. Si esce con la certezza di star correndo troppo, di non soffermarsi sufficientemente sulle cose.  Di essere una pellicola fotografica sulla quale sono state impresse delle immagini che non si sanno sviluppare.

Si rimane con mezzo ombrello rotto in una mano a guardare la pioggia e ad aspettare una rivelazione. Fissarsi con gli occhi sulle cose con la certezza di star solo vedendo, senza aver guardato abbastanza. Viene un’inspiegabile esigenza di ripartire da zero e di annotare tutto. Baricco lo sa.

«Capirete quanto è fantastico fare questo mestiere» conclude la sua lectio.

Francesca Mancini