Monte Spicco

Monte SpiccoSorge in val Aurina. La sua mole si erge a proteggere dai venti freddi del nord il piccolo borgo altoatesino di Selva dei Mulini.
Avevo scoperto quel piccolo paese descrittomi nell’età della fanciullezza dai miei genitori che, essendo produttori e commercianti di legno, in quelle valli si approvvigionavano di tavolame da falegnameria.
Frequentavano la valle Aurina due o tre volte l’anno, cercando il materiale migliore da rivendere ai clienti della nostra zona.
Erano già parecchi anni che andavo in Alto Adige, in particolare a Selva dei Mulini. Seguendo le orme paterne anch’io mi ero avventurato per le vallate altoatesine in cerca di legname.
La passione per la caccia d’alta montagna mi portò a chiedere il permesso di caccia giornaliero, nella riserva del comune.
malgaAllora l’areale della riserva comunale comprendeva anche le montagne sovrastanti il piccolo paese di Lappago. Sperduto tra i monti era formato da poche case. D’inverno gli abitanti rischiavano di rimanere isolati dalle valanghe che spesso scendevano, travolgendo nel loro impeto distruttivo ogni cosa. I valligiani fino all’arrivo della primavera vivevano segregati nei loro masi, accadeva da secoli e  i pochi abitanti erano abituati.
Il paesaggio era ed è da favola. Abeti, larici, pini cembro contornano i monti fino a quasi duemila metri di altezza, poi verdi ed invitanti pascoli allietano le alte montagne dove a pascolare assieme ai camosci salgono d’estate le mucche dalle gambe corte ma forti, che brucano l’erba montana fino all’inizio delle rocce.
Sullo sfondo svettava il ghiacciaio perenne del Neves che riluceva al sole, rilasciando la preziosa acqua accumulata nei lunghi inverni sotto forma di neve che scendeva in mille rivoli invitanti per poi gettarsi nel gran lago artificiale formatosi negli anni cinquanta.  L’Enel aveva provveduto a costruire la diga atta a formare il bacino che avrebbe alimentato la centrale idroelettrica posta a valle.
Per raggiungere la diga,  oltrepassato il paese di Lappago, ci si  inerpicava su per una stradina sterrata ripida che si snodava su orridi scoscesi. La  strada   portava  alle malghe,  dove iniziavano i due sentieri che portavano in alto, uno a est portava al rifugio Porro, il secondo più avanti portava al rifugio Ponte di ghiaccio. Tutti e due   rimanevano aperti  agli escursionisti dalla metà di giugno fino alla fine di settembre, poi restavano a disposizione di chi  si avventurava su quelle alte pendici, fino a che la neve lo permetteva, per cacciare le “bianche”.
pernice biancaLa pernice bianca, è un  tetraonide, e vive  a quote che superano i duemila metri di altitudine, fa parte degli animali che cacciavo con grande passione,  amore e rispetto.
La montagna del Neves era il luogo ideale per la riproduzione della pernice bianca: il suo areale comprendente il ghiacciaio e l’esposizione al sole   mi facevano  considerare quel territorio come la riserva di caccia migliore che un cacciatore potesse desiderare.
Ero riuscito ad avere negli anni, assieme a mio fratello e ad altri due accaniti cacciatori bresciani anch’essi innamorati di quelle montagne, l’esclusiva della caccia alle bianche. Ci dividevamo il territorio di caccia andando a settimane alternate a destra o a sinistra della cima bianca, facendo di questa un confine naturale.
Certamente i cacciatori bresciani erano molto più accaniti di noi. Si fermavano in quota fino a sera, li sentivamo ancora sparare quando già eravamo di ritorno al lago, nel pomeriggio.
Lassù a quelle quote, fra il Mesule, il Gran Pilastro e la Cima Bianca, ho trascorso i più bei giorni della mia giovinezza, camminando per tratturi, ghiaioni, lastroni translucidi di porfido in forte pendenza, dove  potevamo camminare in sicurezza muniti di buoni scarponi.Tanti ricordi  porto nella mente, rivedendo e rivivendo visivamente  come in un film quelle avventurose giornate.
Una fra tutte mi vide in gran difficoltà nell’attraversare un pendio pericoloso per la formazione del terreno, ricoperto da un sottile strato di sabbia e ghiaia. Il luogo era molto pendente, non vi era il minimo appiglio, né sassi né vegetazione. Fortunatamente avevo sempre con me il bastone da montagna. Era  diviso in due con un sistema d’avvitamento che mi permetteva di riporlo agevolmente nello zaino quando imbracciavo il fucile. Con il suo supporto ho potuto attraversare indenne il pericoloso pendio e riuscire a riportarmi in zona più sicura. Mi è rimasto impresso nella mente il ricordo  di quei momenti,  ancora dopo  parecchi anni,   come fosse passato poco tempo.
Mi sovviene alla mente, e racconto agli amici molto spesso, un’altra esperienza particolare.
Era  un pomeriggio di caccia alle pernici. Eravamo  a destra del rifugio, sotto la cima  Bianca.         Si alzarono in volo due uccelli, già quasi fuori tiro di fucile,  tentai ugualmente la sorte.  Sparai ad una di esse, il tiro era lungo, impossibile abbatterla, ma con sorpresa vidi dallo scarto che fece  di averla colpita. Seguii con gli occhi mentre si allontanavano, fecero  un volo lungo, attraversarono  la valle che avevo di fronte finchè atterrarono fra i sassi in un piccolo pianoro. Tenuto a mente il luogo m’incamminai fra rocce e ruscelli, ci misi più di mezzora ad arrivare nei pressi dov’erano calate.
Dik, il mio fido amico di mille avventure, come sempre si diede da fare per scovarle e trovata la pastura giusta si pose alla ferma: partì un’unica pernice, capii che era quella colpita, probabilmente l’altra si era già involata.
Le sparai contro un doppietto mancandola di netto, ma ferita dalla prima fucilata fece un volo di non più di duecento metri, poi si calò ancora fra i sassi. Sicuro di recuperala scesi la breve distanza che ci separava e Dik, ponendosi alla ferma, mi fece capire d’averla ritrovata. Guardandomi pareva mi dicesse «Ora tocca a te».
La pernice ripartì, naturalmente le sparai un ulteriore doppietto mancandola di netto. Malconcia   nel volo scese ancora ed atterrò nuovamente.
Attirato dai colpi di fucile arrivò in zona anche mio fratello, che aveva cacciato per suo conto, ed aveva messo nel carniere un buon numero di pernici. Ci avviammo assieme verso la zona poco lontana dell’atterramento, disponendoci a sparare per farla finita.
Dik ancora una volta si pose alla ferma, la pernice partì in discesa, pur se ferita e con tutte le forze che le rimanevano in corpo. Ancora sparammo i quattro colpi di fucile che avevamo a disposizione, ancora una volta mancandola.  Scendeva in picchiata, volando risico terra in direzione di un grande masso di granito che determinava il ciglio del burrone. Pensai subito d’averla persa.
La pernice ferita  non riuscì a superare l’ostacolo che le si poneva di fronte, andandovi a sbattere contro, così da ammazzarsi da sola. Rivedo ancora  la scena,  la pernice che sbatte e rotola prima di fermarsi per sempre con le ali aperte,  come dicesse «Mi arrendo, non sparatemi più».
Non fu una gran caccia, avevo il cuore amareggiato e ferito. Quando una preda è ferita si deve assolutamente finirla per non farla soffrire, ma questa piccola pernice  aveva una forza incredibile,  voleva volare ancora.
Un altro giorno, un altro momento indimenticabile, avevamo oltrepassato il rifugio Ponte di ghiaccio da poco meno di mezzora.  Con me qualche decina di metri addietro c’erano mio fratello ed un amico anch’egli cacciatore appassionato delle Bianche. Stavo salendo  una  piccola collina  sapendo che sul versante opposto si sviluppava un lungo pendio, dove spesso trovavamo un volo di pernici.  Raggiuntane la cima per primo, rimasi stupito nel vedere ciò che in pochi istanti accadde.
Si sollevò letteralmente il pendio della collina, una nube di penne, piume, e caruncole rosse s’involò all’unisono andando in un unico volo verso il ghiacciaio della Cima Bianca, scomparendo  poi alla vista.
Riuscii a coglierne  con due fucilate due, delle mille pernici involatesi, rimasi stupefatto a guardare assieme agli altri  il  meraviglioso grande dono che la  natura  ci aveva regalato.
Perdemmo poi la concessione  stagionale della riserva: la causa fu la tardata  riconferma primaverile. Feci in seguito molto sforzi per rientrare ma inutilmente, non vi fu alcuna possibilità  ritornare lassù a caccia.
Dovetti perciò accontentarmi di cacciare solo sulle montagne della riserva di Selva dei Mulini  in Alto Adige, a  Predoi, Rio di Pusteria, Acereto, Racines, però non potevano competere con l’areale e la fauna della riserva del Neves
Selva dei Mulini rimase per un lungo periodo la mia base per le vacanze ed il  commercio di legname, l’albergo Rose era il nostro rifugio. Acquistavo tavolame dalle due piccole segherie del paese, diversi pezzi di spek fatto in casa dai vari contadini e poi dal macellaio del paese, burro d’estate nelle malghe, e qualsiasi cosa  potesse concretamente aiutare il commercio della piccola contrada.  A fine estate vi trascorrevo almeno una settimana con tutta la famiglia, compresi i cari suoceri.  Andavamo spesso per funghi nel bosco di fronte l’albergo.
Con il passare degli anni il paese cominciò ad espandersi, il vecchio albergo fu abbattuto e al suo posto sorse una nuova struttura alberghiera all’avanguardia. Poi  la pesca sportiva con il nuovo laghetto a valle dove passavamo il tempo a prendere trote ed altre strutture alberghiere dotate di ogni confort.
Alcune battute di caccia alla bianca le ho fatte sulle scoscese montagne che fanno parte del  territorio della riserva comunale di Selva, però di bianche non  ne trovai mai,  mi capitò di vederne alcune solo a monte Spicco.
Una battuta di caccia sui monti a sud di Selva,  in compagnia di Modesto, l’amico del mio paese che mi accompagnava spesso in giro per l’Italia.
Ci incamminammo quel mattino di fine settembre dalla malga cui un amico ci aveva portato in auto, camminando su per i monti  ad una quota superiore ai duemila metri. Nel pomeriggio ci trovammo dirimpetto  al paese di Lappago, lontani parecchi chilometri dal punto di partenza,  senza mai veder una Bianca o altri animali da cacciare.
val-aurina-map Arrivammo nel pomeriggio inoltrato  in un anfiteatro chiuso ad est da basse rocce, il tutto formava una piccola vallata molto piacevole alla vista.  Ad un tratto ci rendemmo conto del silenzio dintorno, non vi  era alcun rumore. Percepii per la prima volta nella vita  la sensazione del vuoto assoluto. Credetemi, fu un’esperienza sconcertante non udire alcun rumore, alcun alito di vento. Sembrava di essere unici al mondo.
Trovammo più avanti in un ghiaione escrementi di pernici e una penna bianca, null’altro. La sera oramai era incipiente e decidemmo di  ritornare alla civiltà.  Non essendoci  sentieri né tracce di strada, scendemmo lungo ripidi pendii boscosi, coperti di piante di mirtillo ed erika, scivolando sul sedere nei punti ripidi, a quasi a settanta gradi di pendenza.
Giunti alla strada che univa Lappago  a Selva chiedemmo un passaggio ad un auto, tanto eravamo stanchi e lontani dal punto di partenza.
Più volte cacciai le bianche sul monte Spicco ma con scarsi risultati.Vi fu una volta che salii  in compagnia di mia moglie, anch’ella cacciatrice,  e del nostro amico Sepple di Selva. Alla partenza dalla sua casa mise  alcuni capienti sacchetti di plastica i nella tasca della cacciatora, non ne  capivo il perché.
Salimmo con l’auto fino al punto d’incontro del sentiero che ci avrebbe portato al monte, parcheggiammo l’auto e ci disponemmo ad intraprendere la salita. Al limitare del bosco posi subito l’occhio su di un fungo porcino e  nel coglierlo ne vidi altri due, poi altri ancora e ancora.  Salimmo il sentiero raccogliendo funghi, riempiendo numerose borse di plastica fino a che non potemmo più portarne.
Nascosto il carico di funghi fra gli arbusti alla fine del sentiero, c’incamminammo su per la ripida dorsale del monte Spicco senza poi aver la fortuna di trovare le Bianche. Fu una camminata lunga ma non impegnativa.  Capivo che mi trovavo su  una montagna  normale,  di Bianche poteva accoglierne poche visto l’areale sprovvisto di zone ricche di sassolini ed erbetta alpina di cui sono golosi questi volatili.  La relativa vicinanza con la Cima Bianca mi faceva sperare di trovarne, invece nulla.
Scendendo a valle nel primo pomeriggio, entusiasti per il carico di porcini che portavamo , unico bottino della giornata, lungo il sentiero incrociammo un valligiano che scendeva con in spalla un sacco di juta, bello grosso, pieno dei preziosi funghi
Tanto fu l’entusiasmo per la raccolta dei porcini, che nel pomeriggio dopo essermi coricato per un piccolo riposo, non chiusi occhio: vedevo porcini dappertutto e  così fu per tutta la notte seguente ed anche per il riposo nel  secondo pomeriggio. Riuscii finalmente a dormire la seconda notte. I funghi furono poi puliti e seccati da nonno Toni, mio suocero,  gran appassionato e conoscitore del bosco.
Monte Spicco,  l’ultima volta che vi salii per cacciare la Bianca fu ancora in compagnia di Modesto.
Iniziammo la risalita del monte che era mattino appena fatto, la neve caduta nella settimana precedente era compatta, ma non scivolosa. Certo non fu facile camminare sulla neve ma  il sole splendeva nel sereno del giorno.  In lontananza vedemmo un piccolo gruppo di camosci allontanarsi sollecito. Non facevano parte delle nostre prede, pertanto ci fermammo il tempo necessario di goderne la vista.
Arrivando sulla dorsale due pernici bianche s’involarono furtive dal lato opposto della cima, verso la riserva sottostante di Luttago, zona dove noi non potevamo cacciare.
Continuammo  pertanto a salire  la dorsale fino a raggiungerne la cima, poi stanco e affamato io  mi fermai a fare uno spuntino. Pensai bene di aprire una bottiglia di vino e ne bevvi con avidità alcune sorsate.  Ero disidratato ed assetato ma fu un vero disastro.  Il vino in breve mi provocò sonnolenza, le gambe non rispondevano più, dovetti coricarmi e dormire sulla neve ghiacciata,  vi rimasi per circa di mezzora.
Al risveglio, Modesto che aveva continuato la caccia,  mi aveva raggiunto raggiante per aver avuto l’opportunità di abbattere  due pernici.  Ci mettemmo quindi in moto per completare  la ricerca nell’ultima appendice del monte, verso il Mesule. Il cane di Modesto scovò una lepre bianca che lui con un colpo di fucile  ben assestato abbatté.
Vista l’ora tarda pensammo bene di  scendere per ritornare all’auto, ma la lunga dorsale del monte m’ingannò.  Scendemmo più in basso di quanto dovevamo, così il tragitto si allungò di parecchio.
Arrivammo all’auto che era quasi l’imbrunire. In albergo una doccia, una piccola merenda e via,  si   rientra a casa.
Più di duecento chilometri di strada che come sempre furono riempiti dalle chiacchiere di Modesto:  per cento volte mi raccontò di com’erano partite le pernici,  dello splendido doppietto che aveva fatto, di come si era levata la lepre bianca sotto la ferma  della bravissima Diana, la setter che lo accompagnava da anni nella caccia, e avanti così.
Raggiungemmo la prima uscita dell’autostrada di Trento nord, sorpassandola senza accorgermi, tanto mi aveva coinvolto con l’appassionato racconto, arrivò pure la seconda uscita Trento sud, e continuai il viaggio senza badarci.  Mi accorsi dell’errore quando arrivammo sotto il monte che porta il monumento ai tre Martiri. Dovetti per forza uscire a Rovereto e risalire per Folgaria.
Ma fino a casa continuò a parlare, su come si erano involate veloci le due pernici, sul salto della lepre bianca dal suo nascondiglio …

 Gilberto Frigo, l’uomo del Nord