L’attesa rivoluzionaria

Gabriel Garcia MarquezUn colonnello che ogni venerdì da quindici anni aspetta che gli venga finalmente corrisposta la pensione per aver militato alacremente nelle fila della Rivoluzione.
Ogni venerdì mattina lo stesso iter: il colonnello si reca fiducioso verso la cassetta della posta, la trova vuota, ritorna in casa. Il meccanismo dell’attesa che tempra di angoscia e speranza le pagine di un romanzo, Nessuno scrive al Colonnello – il primo romanzo di Gabriel Garcia Marquez – che si conclude con un esito molto verghiano nell’impossibilità di veder realizzati i propri obiettivi.
Un’attesa, però, comunque non improduttiva. Diventa essa stessa la ragione di vita di un personaggio forte, onesto e ancora fiducioso. Alter ego, forse, del Marquez politico, impegnato attivamente, fervente sostenitore del socialismo, un socialismo che sarebbe però limitante definire solo politico.
Un’idea di militanza attiva per conseguire un  progresso che coincida con l’uguaglianza relativa. I suoi stretti rapporti con Fidel Castro, l’amicizia, le accese discussioni, i diverbi verbali, la considerazione dell’importanza di esportare la Rivoluzione Cubana in tutta l’America Latina: caratteristiche di un sogno latino, ben lontano dall’american way of life, dai suoi dogmi di omologazione.
Un’attesa rivoluzionaria quella del Gabo, dispensatore di profezie e vaticini, riscontrabili in tutti i suoi romanzi. La presenza dell’oggi nel domani  in cui la narrazione presenta anticipazioni e previsioni e in cui la vicenda può essere riletta a ritroso dopo una prima lettura, cogliendo indizi sparsi, impliciti o al contrario tangibili nelle pagine che scandiscono la narrazione prima della fine.
Proprio come in Cronaca di una morte annunciata, in cui l’io narrante conduce il lettore in un continuo susseguirsi di passi avanti e indietro, all’interno di un’architettura narrativa intarsiata di flashback e rinvii.
Cicliche ripetizioni si possono ritrovare ancora nella struttura di quello che a più riprese è stato considerato il suo massimo capolavoro Cent’anni di solitudine, mosaico generazionale di una famiglia, i Buendia, e della fondazione della città immaginaria di Macondo, in cui a ripetersi sono eventi catastrofici connessi ad una misteriosa profezia.
Gioiello di quel realismo magico novecentesco, intriso di ispirazioni borgesiane, che sembra richiamare il racconto breve La scrittura del Dio, contenuto nell’Aleph, una raccolta di racconti dell’autore argentino, in cui un sacerdote azteco condannato a morte riesce a decifrare il vaticinio del suo Dio.
Uno spirito infuocato, Marquez, bramoso di letteratura e di poesia, passionale proprio come quel Florentino Ariza, protagonista de L’amore ai tempi del colera innamorato di Fermina Daza ed incapace di dimenticarla, fino al coronamento “incompleto” di un amore, lungo una vita.
«Solo l’amore inappagato è veramente romantico», dice un bravissimo Javier Bardem in Vicky e Christina a Barcellona di Woody Allen. Bardem è anche – singolare coincidenza – protagonista del film L’amore ai tempi del colera di Mike Newell, ispirato all’opera dello scrittore colombiano.
Un amore inappagato, questa volta per scelta, si ritrova nell’ultimo romanzo di Marquez Memoria delle mie puttane tristi. La trama, ispirata al racconto La casa delle belle addormentate del Premio Nobel giapponese Yasunari Kawabata, narra di un malinconico novantenne che riesce ad intraprendere un viaggio intimistico nelle sue memorie solo a contatto con le membra fresche di giovani ed illibate prostitute con cui si accompagna nelle sue solitarie notti.
La sua inquietudine si libera così contemplando le pelli candide delle sue donne, rispetto alle quali il greve peso della tarda età diviene consapevole rievocazione della propria esistenza. L’anziano uomo chiude gli occhi e ricorda in attesa del nulla, del non ricordo, della calma ultraterrena.
Una calma immemore che Gabriel Garcia Marquez ha raggiunto all’età di ottantasette anni nella sua casa a Città del Messico, in calle Fuego 144, e che ha inevitabilmente privato il mondo del suo genio.

Francesca Mancini