Sono stato al Maschio Angioino a Napoli a vedere una mostra d’arte.
Entro nel castello, salgo lo scalone, C’era uno strano silenzio. Un enorme finestra affaccia sul porto di Napoli. Il mare era calmo, sullo sfondo la sagoma del Vesuvio e dell’isola di Capri.
Tra quel paesaggio e me, una scrivania. Dietro, seduto, assorto nei pensieri e a disegnare, Antonio Ciraci. Il Maestro.
Ci salutiamo calorosamente. Mi accompagna nella bella sala dove sono esposti i suoi lavori. Il silenzio. I colori, le forme. Mi da una piantina della sala. C’è una sequenza delle opere esposte. Sotto sono segnati i titoli. Senza dirmelo, facendomelo solo intuire, mi indica il verso del percorso. Silenziosamente si allontana. Mi lascia solo tra le opere.
Movenze fluide. Armonia. Sequenze modulari.Comet fish. Tagli di luna e dune fertili. Ittius. Ovo/Seme.
Parole, segni che rimandano all’ordine universale delle cose e degli eventi. La musica, il linguaggio, il micro e il macrocosmo, l’acqua, l’aria e la terra.
L’origine del linguaggio, manifestazione dell’essere umano nell’universo, i segni primordiali che differenziano l’uomo da tutti gli altri animali. Sono i segni della poetica di Ciraci
«… alcuni segni si ripetono nelle civiltà antiche in ogni luogo, dal sud America come nelle afriche o nei paesi scandinavi, sono stati ritrovati segni simili se non identici».
L’artista ha scavato il linguaggio, ha costruito frasi evocando i miti, come quello di Virgilio, e musiche, sottraendo peso alla parola, togliendo tutto ciò che nei secoli ha arricchito, a volte appesantendo, l’essenzialità della forma primordiale, del segno puro, inconfutabile, che coincide perfettamente con il suo contenuto semantico che vuole esprimere.
È partito da quei segni ricchi di significato, dal sapore antico, come è antica la terra, i Campi Flegrei, di cui si sente parte, anche se solo adottato, e di cui, in ogni singola sua opera, si sente l’odore, si vede il colore del fuoco e del mare, per creare una sequenza con una struttura tipica di una narrazione, con un suo centro, fisicamente rappresentato da una pittura scultura totemica, e un percorso, lineare intorno al quale si sviluppa il racconto.
Un racconto sulle origini della parola che diventa poesia, che alchemicamente trasforma i colori e le forme in suoni.
«Ovo, tutto parte da qui», mi dice l’autore. È l’ultima opera, una vecchia sua opera. L’immagine di un uovo. È l’uovo filosofico. È il forno alchemico, l’athanor che trasforma la materia grezza in metalli preziosi.
Per pura co-incidenza, nei miei scritti amo chiamare la Parola Pietra, e la poesia è per me come un uovo filosofico, un forno alchemico che trasforma quella rozza pietra in una rara e preziosa pepita.
Mario Scippa