Nick e Amy sono, all’apparenza, una coppia perfetta: giovani, affascinanti e di successo. Ma Amy scompare e Nick viene sospettato.
David Fincher è il regista di questo intrigante film (USA, ‘14). Tratto dal romanzo omonimo di Gillian Flynn, pubblicato anche da noi, ha avuto la sceneggiatura opera della stessa autrice: cosa piuttosto rara nel cinema, le cui logiche visuali-narrative sono diverse da quelle verbali. Ma è stato il regista stesso che, fidandosi del fatto che la scrittrice lavora anche per la tv, l’ha voluto.
Il lavoro che n’è uscito è stato egregio, sotto ogni punto di vista. La narrazione verbale, piuttosto corposa, vedeva le “due campane” a confronto con stili e soggettività diverse: ma ciò avrebbe rallentato lo sviluppo dell’azione. Tuttavia le due soggettività sono rappresentate lo stesso nel film, anche se in modi diversi dalla scrittura. Ma mentre il maschione Nick fa la figura dello cchiò-cchiò (l’imbecille), mediocre nello sfuggire alle responsabilità, ma sostanzialmente, “mediocremente” onesto. Nel senso che non ha la forza tragica della disonestà totale.
La figura da tregenda è la moglie Amy. L’attrice, la fine, delicata, elusivamente bellissima inglese Rosamund Pike, si trova catapultata in un ruolo da svoltona di carriera. È lei il film. Paragonata ad una creatura hitchcockiana, per questo algore esteriore e ribollente passione che la pervade.
La scelta registica, fatta salva la non sottomissione larvata, che invece per una sottile vena di cattiveria misogina caratterizzava il rapporto di Hitch(cock) con le sue dive (peraltro da lui quasi create), è stata coerente in tal senso.
La Pike in più di un’intervista ha più volte precisato il tono interpretativo impostato per lei dall’autore del film. Ma, a finale, questa tizia, con tutto l’armamentario della famiglia intellettuale newyorkese, che aveva organizzato per lei un destino già scritto di successo, con profitti economici per loro inclusi, è pazza o no?
La risposta degli autori è si; ma non senza le complicità collettive dei media e di tutti coloro che stavano loro attorno. Compreso il marito. Anzi: il panorama è ancora più sconsolante, perché o non sanno, e quindi immaginano – cioè: vogliono immaginare – un film a lieto fine.
Coloro che sanno e/o l’hanno capito, invece, fanno colletivamente buon viso, fingendo di entrare nella finzione collettiva architettata da lei.
Non è che il film sia un’ulteriore denuncia della negatività assoluta dei media, alla “Quinto potere”; lo è anche. Ma allarga la sua prospettiva ad una visione valoriale più complessa: più attentamente e profondamente consona allo stato della civiltà delle immagini della società e della comunicazione attuale ad essa strettamente connessa che la caratterizza.
I media, vampirescamente, rilanciano, e fanno sedimentare nei pubblici che li seguono, un’immagine già costruita; già presente nell’immaginario sociale di prossimità. Le voci della tv, sia contro di Nick che nella “riscossa” sua, quando comprende a quale parte della moglie si deve rivolgere per uscire dalla trappola d’acciaio congegnata, entrano nella narrazione come dei separa-capitoli: hanno una forza narrativa dirompente.
Sono costruite sui toni cromatici complessivi, pallidi e opprimenti, pure in pieno mattino, dalla fotografia dell’eccellente Jeff Cronenweth, che ha continuato e sviluppato proprio coi film di Fincher, la capacità e il talento di smontare il colore e di riaccenderlo in vasti sottotoni drammatici che caratterizzava il padre, il grande Jason C. cui si deve la foto di “Blade Runner”.
Anche la musica svolge la stessa funzione narrativa di instillatrice di oppressione e di angoscia collettiva. È di Trent Reznor e Atticus Ross: i due hanno spesso collaborato con Fincher con risultati di assoluto rilievo, tra jazz, musica d’atmosfera e d’accompagnamento.
Nel film si vede con chiarezza la manipolazione: ma il dramma è che tutti seguono le mollichine che questa Pollicino estremamente fotogenica rilascia: anche l’FBI. Le uniche che le resistono sono altre donne, che però ragionano con la loro testa: non solo la gemella di Nick, per ovvi motivi, ma anche la detective dello sceriffo, e quella vicina scafata del Motel.
Il film si chiude come una trappola mortale su tutti i personaggi; anche se con tutte le apparenze di un sostanziale happy end.
Ma, a pensarci, è un finale tragico per tutti. Tutti noi, intendo.
Francesco “Ciccio” Capozzi