In un imprecisato sito dello sprofondo nordestino, si agitano Luisa e Renata: due giovani ribelli contro tutto e tutti, in procinto di compiere la classica bravata con conseguenze. Valerio Caprara domanda ai giovani registi impegnati: «Ma ca v’a fatto ’o nordèst?» perché ha notato che tutti i giovani – e non solo i giovani – film maker della realtà, utilizzano quella zona come un privilegiato luogo di metafora, anzi l’unico, se debbono parlare di razzismo strisciante, perdita di valori, arricchimento e avidità a tutti i costi, ecc.
È comunque certo che vi sono numerosi altri distretti del nostro Paese che sono stati contraddistinti da un’invidiabile crescita industriale, almeno nel passato; ma è difficile trovare una completezza di condizioni sociali e storiche simili a quelle del nordest, che hanno fatto esprimere quella soggettività politico-sociale che oggi lo caratterizza, nel bene e nel male.
Il film parte da un’ardita, azzeccata e fin troppo compiaciuta sequenza dall’alto, ritmata sulle note, molto suggestive, a cappella di una Corale tradizionale veneta, che dà un’idea di rappresentazione esemplare, collettiva anche se messa in moto dalle vicende dei due personaggi femminili protagonisti.
Le loro vicende sembrano svilupparsi come casualmente riprese: ma è che la formazione del regista, Alessandro Rossetto, viene dal documentario/cinema di realtà, da cui ha mutuato gli stilemi fondamentali.
Il film (ITA, ‘13) segue con attenzione e con uno spiccato senso della documentazione realistica, “sul pezzo”, della società che contorna la vicenda. E non solo i panorami, ma anche gli squallidi, incombenti interni in cui si sviluppa la vita reale di tutte le dramatis personae; le loro relazioni sociali: la sceneggiatura , dello stesso regista e della giovane Caterina Serra, legge tutto con gli occhi delle ragazze.
A ben pensarci il film utilizza solo alcuni limitati scenari: ma sono proprio quelle le dimensioni fisico-esistenziali della due youngadult. Non c’è nemmeno la più pallida traccia di bellezza: per cui è possibile immaginare un destino diverso da quello stabilito dalla pseudo cultura ambientale ipocrita del vivere “coperti”, uniformi e ingrigiti.
Anche se gli autori hanno descritto una realtà fin troppo ossessiva e unilaterale, hanno utilizzato questi elementi per dare sponda alle nevrosi delle protagoniste.
Che appaiono, invece, ben descritte, perché sono seguite nel loro “appartenere senza essere”, a quell’ambiente, a quelle pressioni, a quei rapporti. Anche se delle due, Luisa col suo rapporto con Bilal, in cui parrebbe costruire qualcosa di suo, e con quello con la madre (la brava attrice Lucia Mascino), nella sostanza provvisto di una sua delicatezza, sembra assumere una maggiore coscienza rispetto ciò che stavano combinando.
Mentre l’altra, nel suo essere più dura, è quella più disperata. La scelta delle due giovani attrici (Maria Roveran e Roberta Da Soller) è appropriata e fisicamente rispondente: e più in generale il casting ha un’aderenza fisica naturale.
Le scelte della scenografia, della giovane Renza Mara Calabrese, sono essenziali e obbediscono omogeneamente alle scelte di regia; in questa chiave anche la fotografia (diretta da Daniel Mazza) assume toni volutamente malinconici, poco brillanti.
Ma è il montaggio, dello sperimentato e sperimentatore Jacopo Quadri – ha lavorato anche in Sacro GRA – a fare la differenza: egli “muove” il film. Gli fa assumere quella dimensione sospesa tra una incubo a luci forti e il sogno di una realtà che è presso di noi, oppressiva e assurda, ma concreta e invasiva. Da senso e unità all’intero film: ne attenua alcuni errori di schematismo e di unilateralità narrativa.
Francesco “Ciccio” Capozzi