Siamo alla fine del Cinquecento, per tutto il secolo l’arte ha vissuto un linguaggio formale di maniera, riproponendo gli schemi classici del Rinascimento.
Una prima opposizione alla cultura romana, prima del rivoluzionario periodo barocco, arriva dagli artisti settentrionali, con una motivazione inizialmente di tipo religiosa: la ricerca di un linguaggio che non rivelasse Verità assolute, ma con l’obiettivo di stimolare un sentimento religioso partendo dall’osservazione del dramma della vita terrena.
I maggiori interpreti di tale opposizione sono il bolognese Annibale Carracci (1560 -1609) e Michelangelo Merisi da Caravaggio (1573-1610).
Una rigida e classica schematizzazione dei critici dell’epoca vuole che il loro linguaggio sia in antitesi: Carracci rappresenta un mondo ideale, Caravaggio uno reale.
Anche se non è proprio del tutto esatta tale schematizzazione, resta il fatto che entrambi si oppongono nettamentre con la loro opera alla cultura manieristica romana, imponendosi come protagoinisti assoluti del periodo di transizione, preannunciando poi la rivoluzione linguistica del Barocco.
È una semplificazione anche quella di schematizzare, perché l’idealismo dell’uno e il realismo dell’altro, pur essendo due tendenze divergenti, erano sempre in un rapporto dialettico e pongono le basi linguistiche per tutte le innovazioni che si avranno nel linguaggio dell’arte.
La figura di Caravaggio sembra essere quella di un personaggio di un romanzo, il genio che fa una vita sregolata, allievo di Simone Peterzano a sua volta allievo di Tiziano.
A soli 20 anni si trasferì a Roma imponendosi con il suo linguaggio e la sua arte. Si racconta che dopo aver ucciso un giovane in una rissa dovette scappare a Napoli, a Malta e poi in Sicilia.
La sua fu una vita violenta, vissuta in una estrema tensione morale e religiosa, che sicuramente influì nel suo linguaggio artistico, caratterizzato da una carica rivoluzionaria che lo contraddistingue. Il suo realismo si oppone al naturalismo e la ricerca della verità all’immaginazione.
Per Caravaggio, sostiene Argan, l’arte non è una attività intellettiva, ma morale: non consiste nel distaccarsi dalla realtà per rappresentarla ma nell’immergersi nella realtà per rappresentarla.
È un po’ un vero fotoreporter dell’epoca, che ci rappresenta, interpretando la realtà con il suo scatto, raccontandoci sempre un evento, spesso anche drammatico, con il potere della poesia.
Un’opera che trovo emblematica della sua poetica è La Morte della Madonna.
In quasi tutte le sue opere, il pensiero della morte è sempre presente, così come lo era in artisti come Michelangelo Buonarroti.
Ma se in Michelangelo era sublimazione e liberazione dal peso della materia, per Caravaggio la morte è solo la fine della vita.
In La Morte della Madonna, eseguita tra il 1605 e il 1606 per la cappella Cherubini in Santa Maria della Scala a Roma, una grande tela di metri 3,69 per 2,45 metri, oggi a Parigi, al Louvre, all’epoca fu rifiutata dal clero, perchè secondo gli ecclesiastici, profanava l’immagine della Madonna. Infatti in quest’opera, l’etica religiosa si esprime con un concetto del tutto nuovo: il sentimento sociale.
La Madonna è il ritratto di una donna morta annegata, Caravaggio crea poesia da un dramma. Lega il divino al terreno. Vede la Madonna in una donna, si dice una prostituta, annegata nel Tevere.
Gli apostoli e i parenti intorno, non sono personaggi sublimati, ma sono umili persone che si stringono intorno ad un dramma, ad un dolore.
La rivoluzione copernicana del Caravaggio sta nel rappresentare il divino nei fatti della vita quotidiana, nell’umanità vissuta, senza convenzioni, formalità e distacchi formali.
È la vita vera a essere la rappresentazione del divino. È il racconto del dramma di una vera morte che si innalza a Poesia.
La grande rivoluzione nel linguaggio di Caravaggio sta nel fatto che egli con le sue opere sembra trasmetterci un unico grande messaggio: l’artsta, è colui che va oltre ciò che appare scontato, in quel territorio mentale libero da ogni vincolo, là dove si può rintracciare la bellezza. Ed ha il grande dovere morale di rivelarla e farla vivere agli altri, anche se si presenta nella sua grande e drammatica verità.
Mario Scippa