Il film: Marguerite

Marguerite - Copia1920, Francia: Marguerite Dumont, ricca e generosa mecenate, organizza delle importanti serate di beneficenza di bel canto, durante le quali si esibisce essa stessa con trasporto. Ma, ahimé, è totalmente, squillantemente stonata …
Il film (FRA, REP CEKA, BEL, ‘15) è ispirato alla biografia di una cantante realmente esistita, però  americana: Florence Foster Jenkins, sulla quale se ne sta preparando un altro con Meryl Streep.
È uno di quei tipici film francesi nati all’apparenza per pura scommessa intellettuale: esso sviluppa  il paradosso dell’anti-successo, ovvero il simmetrico del successo ad ogni costo di pura scuola hollywoodiana, su cui siamo stati culturalmente e visivamente educati.
Il regista è Xavier Giannoli, che l’ha anche sceneggiato insieme alla solida e sperimentata Marcia Romano. È autore, da noi non molto conosciuto, che investiga su aspetti del vivere metropolitano ricchi di contraddizioni e si sforza di evitare ogni banalità anche di fronte a materie trite. E questo bel film ne è la prova.
Marguerite è pateticamente, quasi comicamente fuori da ogni controllo della voce: eppure lei ama visceralmente, intensamente il canto: vive totalmente immersa in esso; e proprio non vuole accorgersi che è lo zimbello dei suoi interessati spettatori.
Costruisce in foto dei set fantastici di grandi opere liriche, totalmente fasulli, insieme al suo fedele, massiccio, efficiente, comprensivo e sodale maggiordomo di colore (che ricorda e sviluppa il personaggio del grande Erich Von Stroheim di “Viale del tramonto” d Billy Wilder, 1950).
Vive da una parte in un’aura di falsificazione compulsiva. Dall’altra, buona e sensibile, ha degli effettivi legami di apparente linearità con la realtà.
Vorrebbe che il marito s’interessasse a lei: e tutto il teatrino è messo su per questo, probabilmente. Il marito ne è spaventato: vorrebbe togliersi da quest’umiliazione ma ha l’amante, e gli conviene mantenere quest’ambiguità.
È del tutto evidente che per reggere questo personaggio ci voleva la grande attrice che è Cathérine Frot. In Francia è un mostro sacro, di una duttilità esemplare che la porta dal teatro al cinema, dalla commedia al dramma sempre con bravura e personalità. Riesce a dare quel mix sconcertante di ingenuità, affettività, incapacità e incaponimento nel non voler riconoscere la verità. Ma anche passione, sensualità e femminilità delicatamente accennate, ma evidenti.
Ricorda molto, a femminile, l’Ed Wooddel film omonimo di Tim Burton del ’94, in assoluto uno dei più bei film della storia del cinema. In cui il più scarso dei registi di Hollywood viene ritratto con affetto e complessità di sguardo, mentre  vive e lavora e si confronta perfino con Orson Welles, il più geniale dei registi. E difatti Burton è uno dei pochi registi di Hollywood che esce dal quadro dei suoi valori ideologici.
Tuttavia, la sceneggiatura pone di più l’accento sul rapporto tra l’incedere della modernità, nonostante l’ambigua deriva futurista, che offre nel film alcune pagine molto convincenti, e della tecnologia, che con più efficiente spietatezza pone di fronte alla realtà. O meglio: alla registrazione, più o meno fedele, di essa; alla sua riproducibilità tecnica infinita (W. Benjamin).
E qui addirittura il regista con quella sequenza del luogo fisico di campagna, caratterizzato da una croce in un sentiero sperso, percorso più volte, ci suggerisce la circolarità dell’esperienza dei suoi personaggi, e di come tutti vadano a imbattersi nel fatale finale, pur portativi da diversi fini.
E il Maggiordomo, uno splendido incombente Dennis Mpunga, diventa la Parca che decide il destino della protagonista. Il suo “occhio-camera oscura” ha la doppia valenza del dato storico e dell’elemento metaforico. Gli autori del film hanno gestito e manipolato i diversi piani narrativi e tematici con sciolta e pregevole sicurezza.
L’eccellente fotografia di GlynnSpeeckaert,  sembra bianco e nero: in realtà è un colore desaturato, simile alla cromaticità documentale storico-fotografica dell’epoca; essa aiuta molto, insieme a tutte le altre componenti tecnico-artistiche (costumi, scenografia ecc.) a definire un gusto e un’epoca.
Il montaggio del giovane Cyril Nakache, nell’accompagnare con vivacità e concentrazione gli sviluppi narrativi rende flessibile la visualità complessiva.

Francesco “Ciccio” Capozzi