Adolfo Wildt, l’ultimo simbolista dimenticato

Adolfo_Wildt_Orangerie1PARIGI (FRANCIA) – Nell’ambito di una riscoperta dell’arte italiana dei primi decenni del Novecento, promossa da alcuni dei maggiori spazi espositivi della capitale francese, il Museo dell’Orangerie propone una retrospettiva dedicata alla figura di Adolfo Wildt con circa sessanta opere, tra disegni, sculture e fotografie dal titolo “Adolfo Wildt: l’ultimo simbolista” (Adolfo Wildt: le dernier symboliste)
La scelta va dunque a ricadere su di un artista non certo tra i più celebri nel nostro panorama artistico, a causa di un lungo ostracismo che è possibile attribuire a diverse ragioni, non per ultima la vicinanza con il regime fascista. Proprio per la sua scarsa fama, è singolare ed interessante assistere ad un’esposizione all’estero dedicata alla memoria di quello che fu uno scultore solitario e tormentato.
Adolfo Wildt nacque a Milano nel 1868 da una famiglia molto umile e si avvicinò presto al mondo dell’arte da “autodidatta” (come amò in seguito definirsi), raggiungendo una certa notorietà nel 1912 grazie all’opera “Trilogia”, una mastontica fontana costituita da tre figure.
Dalla personalità discreta ed indipendente, Wildt rimarrà sempre ai margini delle avanguardie, mantenendo comunque un forte legame con la tradizione pittorica e scultorea italiana, affascinato, in particolar modo, dai maestri del Rinascimento.
Nonostante i soggetti delle sue opere complesse e la bizzarria dei suoi modelli, che ne fecero un simbolista eclettico, ai limiti della gradevolezza, l’aspetto della sua arte la cui importanza fu unanimamente condivisa riguardò la maestria nel lavorare il marmo, che gli valse l’accostamento, da parte della critica, a grandi artisti europei, come Caravaggio, Michelangelo, Klimt e Canova.
Tra i più importanti riconoscimenti ottenne una cattedra di scultura, attribuglitagli senza concorso, per i suoi soli meriti, all’Accademia di Brera e  l’invito ad entrare a far parte della prestigiosa Accademia d’Italia, che lo raggiunse circa due anni prima della morte, avvenuta nel 1931.
La retrospettiva monografica al Museo dell’Orangerie propone una selezione delle sue opere che si susseguono rispettandone l’ordine cronologico. Marmi levigati in maniera impressionante, patinati con mezzi più estremi e rudimentali (come urina e sterco di cavallo) tanto da sembrare volti vivi pietrificati ed imprigionati nel marmo, sempre corredati da scritte, molte in latino, che offrono un supporto utile alla comprensione di un’arte, altrimenti non facilmente accessibile. Lo stesso autore offrì degli strumenti atti a comprendere i procedimenti da lui utilizzati nella creazione delle sue sculture, nel libro “L’arte del marmo” in cui si apprende di come levigasse, attorcigliasse il marmo fino a renderlo “capace di galleggiare nell’aria”, come lo definì Ojetti. In ultimo, l’esposizione si propone di analizzare e porre in evidenza i punti di contatto tra le opere di Wildt, la sua idea di tradizione e quella degli artisti che gli furono contemporanei, come Fontana e Melotti, di cui sono presenti alcune creazioni.

Il busto di Mussolini
Il busto di Mussolini

Spicca in una delle sale, dedicate alla mostra, il mezzo busto imponente di Benito Mussolini intitolato “Dux”, che gli fu commissionato da Margherita Safatti, artefice della politica artistica del regime – una delle probabili amanti di Mussolini – come ornamento alla Casa del Fascio di Milano. Un monito irreprensibile all’obbedienza, diventato, a causa delle molteplici riproduzioni, uno dei riferimenti iconografici più celebri del dittatore, che si compiacque della rigidità e fierezza che emergeva da quella scultura – “Mi complimento con lei, non per me, ma per l’arte intera” sembra avesse detto a Wildt il giorno dell’inaugurazione.
L’opera monumentale conserva oggi i segni delle picconate che ricevette in pieno clima entusiastico, alla vigilia della Liberazione.
L’universo simbolista di Adolfo Wildt prosegue con alcune sculture e disegni incentrati sulla condizione della maternità, figure gracili e leggere, delineate solo per contorni, il cui stile sembra risentire dell’infuenza che ebbero gli artisti della Secessione tedesca e viennese, come Gustave Klimt. La maternità sembra rappresentare, in queste composizioni, l’unico rimasuglio di purezza e di innocenza nel garbuglio delle passioni e degli eccessi dell’animo umano.
In sostanza si tratta di una scelta non poco rischiosa quella del Museo dell’Orangerie di consacrare un’esposizione ad un artista italiano denigrato dalla sua epoca e largamente ignorato dalla nostra, che trova nelle sale del museo, costeggiato dall’affascinante giardino delle Tuileries, l’occasione giusta per essere riscoperto e finalmente rivalutato.

Francesca Mancini