Margherita, regista di successo focalizzata sul sociale, alle prese con un film difficile, e Giovanni, suo fratello, manager in crisi, sono profondamente impegnati nell’affrontare le ultime ore della loro amata madre, dall’ospedale a casa.
Non a tutti piace Nanni Moretti, il regista, coproduttore di questo film (ITA-FRA, ‘15) e sceneggiatore insieme a Valia Santella, giovane e valida e Francesco Piccolo, ormai figura riconosciuta di intellettuale tra cinema e letteratura.
Anche se il soggetto del film è scritto oltre che da Moretti dalla Santella e dalle due esordienti Chiara Valerio e Gaia Manzi, è evidente che riguardala storia più che personale, intima del regista. Ma è proprio per questo suo utilizzare la propria persona come pietra angolare e ispirazione della sua narrazione, che risulta antipatico : è come se egli si proponesse di essere il centro di tutto con sicumera intellettuale, ostentazione professionale e un’eccessiva dose di narcisismo. Ma questa critica è un approccio molto superficiale e riduttivo sul cineasta.
Lo sforzo del regista è stato sempre di uscire dalle secche della banalità narrativa: e l’unico mezzo evidente è quello di avere un punto di vista autonomo di partenza. Ed è ciò che egli fa, partendo dalla propria personale esperienza: ma allargandola.
Così, ad esempio, gli si è sempre rimproverato di fare film di ambientazione ristretta, addirittura al suo quartiere, il Monteverde Vecchio. Ma, a tal proposito, Goffredo Parise affermò che la Roma di Moretti, nonostante quel che di “neo-vitellonismo” di certa gioventù anni ‘70-‘80, non era per nulla provinciale. Anzi, definì il suo cinema un addio alla commedia all’italiana classica, quella di Risi, Monicelli, ecc.
Moretti insomma guarda alla realtà complessiva, indubbiamente filtrata dalla sua natura di spettatore voglioso di essere stupito – prima ancora che di regista o di cinefilo – con occhio disincantato, ironico, demistificatore. Ma che sa andare a fondo delle cose. Soprattutto, non si tira indietro quando deve affrontare la natura complessa dei sentimenti e delle emozioni.
E questo è paradossale, perché chi sviluppa l’ironia, la satira come arma principale deve avere uno sguardo lucido, razionale fino all’estremo. Quindi poco influenzabile dai valenze non controllabili. Ma Moretti anche su questo vira sull’anomalia: comprende che l’ironia, senza la capacità di andare al cuore, diventa arida esercitazione accademica. E in “La stanza del figlio” (2001) , uno dei suoi capolavori, ha mostrato come i sentimenti possano essere oggetto di analisi così leggere, così delicate e attente ma così devastanti e profonde. Lì mise in gioco l’intera sua persona, senza se e senza ma.
In “Mia madre” ha sviluppato un’operazione analoga: ma molto più intensa, perché riguardava il lutto per una persona a lui profondamente cara e legata, la madre, quell’Agata Apicella, in onore della quale spesso i suoi personaggi, da lui interpretati, si chiamavano Apicella.
Era una timida, ma colta e “componente”, nel senso di accogliente, professoressa di Liceo, una personalità aperta, che ha sempre sostenuto il figlio. E l’attrice che interpreta l’altro sé in gonnella, Margherita Buy, è la stratificazione di Nanni all’esterno. Cioè quella componente femminile della sua personalità, certamente influenzata dalla presenza affettiva della madre, cui il regista ha reso omaggio, con ironia scavatrice e intelligenza narrativa.
Ed è stata sicuramente una scelta arrischiata e geniale aver “diviso” la sua personalità: così facendo egli ha potuto dialogare con se stesso – nel film si chiama Giovanni, che è il vero nome di Moretti – davanti a noi, in un continuo riflesso con il lutto.
In tal senso è un film solenne, perché pervaso dalla memoria attiva di una presenza con la quale, pur se ci accompagnerà per tutto il tempo che ci rimane, bisogna definitivamente chiudere i conti. Non casualmente, l’ultima parola che chiude il film, e che è data dalla madre, una splendida rediviva (80 anni!) Giulia Lazzarini, è speranza. Mentre noi ci accorgiamo della sua andata, perché vediamo tanti malinconici pacchi che ingombrano i corridoi di casa: i suoi “lasciti”, che però sono chiusi ma disponibili per coloro che vorranno aprirli. Come gli ex alunni della professoressa che realmente le hanno reso quegli omaggi narrati da Nanni.
Ha molto aiutato a creare questa atmosfera, cui bisogna lentamente adeguarsi la fotografia di Arnaldo Catinari, che ha dimostrato come una collaborazione tecnico-artistica possa essere essa stessa un capolavoro in sé. Così anche il montaggio delicato ma rigorosissimo di Clelio Benevento è stato essenziale. Un film commosso e commovente.
Francesco “Ciccio” Capozzi