Il film: Cloro

cloroJenny è una diciassettenne che si cimenta nel nuoto sincronizzato: potrebbe eccellere; ma la morte della madre e la depressione del padre, la costringono  a lasciare tutto e andare da parenti in montagna. Qui trova lavoro in un albergo con piscina: la speranza si riaccende. Il regista e cosceneggiatore  (insieme alla navigata  e sperimentale Elisa Amoruso) del film “Cloro” è Lamberto Sanfelice, al suo primo lungometraggio.
È un’opera di cui si è parlato anche all’estero, perché, presentato nel febbraio di quest’anno al Sundance Film Festival, il cui nume tutelare è Robert Redford, ha avuto un’accoglienza calorosa da parte del pubblico e un premio; lo stesso alla Berlinale . E meritatamente. Incentrato sulla ragazzina protagonista, ne descrive la titanica lotta da lei portata avanti per non farsi sopraffare dagli eventi: sia dalla perdita che dal nuovo rapporto col padre, cui è costretta a fare da badante; senza perdere il rapporto amorevole, per quanto brusco, e di responsabilità col fratellino. È un percorso duro: molto ben scandito dall’ambientazione di montagna, sopra Sulmona, ritratta come una realtà inospitale, fredda e dalle linee spigolose.
La scenografia di Daniele Frabetti e la cromaticità fotografica, dai grigi sempre prevalenti, di Michele Paradisi, marcano dei limiti fisici nei quali i  ritmi esistenziali sono  difficili da sostenere. Ma Jenny ha forza interiore, che le viene da una disciplina sportiva che richiede disciplina ferrea, resistenza fisica  e tesa concentrazione; ma anche la speranza di potere continuare  a coltivare il suo sogno d’atleta. Il regista usa stilemi e modi ripresa che vengono dal cinema di realtà; come anche la stessa cosceneggiatrice proviene da quel mondo espressivo, e vi è stata anche regista. Egli lascia parlare i silenzi. Li segue e li esalta, facendo muovere i suoi attori nei contesti più naturali e tangibili possibili: come se potessero essere se stessi solo lì, in quelle cime innevate, dove la solitudine è il dato esistenziale più pertinente. Essa ha divorato il padre convincendolo a fuggire dai suoi demoni,  entrando, come in una sorta di Ospedale Psi, in una clausura monacale. E rende Jenny ancora più sola: perciò lei insegue il sogno sportivo in una dimensione quasi rabbiosa di combattente dalla non riconciliata  identità. Il suo darsi allo straniero, anch’egli solo, esprime questo suo ostinato sfidare. E del resto il film funziona grazie alla presenza perentoria e affascinante dell’attrice protagonista Sara Serraiocco, che non è così giovane (ha 25 anni), né così alle prime armi. In quel suo modo di manifestarsi, molto fisico-corporeo (viene dalla danza), ma anche molto pieno di sfumature e  mobilità facciali,  porta tutt’intera la furiosa energia dell’adolescenza che vuole trovare una sua strada a dispetto del destino, che gliene vuole imporre altre.
Il regista ha dichiarato che il film è «una riflessione sul senso del destino»; ma anche  sui misteri dell’adolescenza, aggiungo. La sua durezza è solo una risposta alle condizioni cui deve reagire.  È molto raccolta e attenta osservatrice, attraverso il mettersi costantemente alla prova, sul cogliere i ritmi di questa nuova esistenza,  comprenderli per non farsene impossessare: mantenere una sorta di distanza critica. Perciò è poco accogliente. Eppure, il regista segue Jenny con amore, e riesce nel miracolo di farcene comprendere, aldilà e al di sotto di queste durezza, di quella ostentata antipatia verso il mondo, la sua fragilità e desiderio di essere normale, di vivere, come la sua amica, vicino alla piscina in città. L’aprirsi e il chiudersi del film davanti all’aperto mare di Ostia indica una speranza di cielo aperto e di vita. Ce ne dà, nell’insieme, al netto di alcune sbavature, un ritratto a suo modo eroico, senza alcuna insicurezza retorica o melensa. Dimostra sicurezza autorale.

Francesco “Ciccio” Capozzi