Il film: Birdman, o l’imprevedbile virtù dell’ignoranza

Birdman_l’imprevedbile_virtù_ignoranzaI giorni frenetici che precedono la prima teatrale come possibilità di riscatto per una star del cinema ormai in declino, dopo che aveva rifiutato la quarta interpretazione, di sicuro successo, di un super eroe.
Anche se non è stato detto esplicitamente, la star in questione è davvero l’attore che interpreta questo film (USA, 14): Michael Keaton, che realmente decise di passare inaspettatamente la mano nell’interpretare Batman, dopo che l’aveva fatto con grande successo due volte (‘89 e ‘92 con Tim Burton). Interrompendo, e quasi oscurando una carriera fino a quel punto prestigiosa: Hollywood non perdona le sue star che decidono autonomamente dal “sistema”.
Il messicano, ma ormai stabilmente hollywoodiano, Alejandro Gonzales Inarritu, l’ha diretto e scritto (insieme a Nicolàs Gicobone, suo collaboratore di lungo corso,il giovane Alexander Dinélaris jr e l’argentino Armando Bo); e l’ha pure coprodotto.
Charmant, colto, à la page, bastevolmente iconoclasta – ma senza “esagerare” perché a Hollywood non avrebbe futuro – è decisamente un autore che ha già dimostrato talento e personalità: “21 grammi”, “Babel”, ecc.
Presentato a Venezia ‘14, il film piacque ma non entusiasmò. Come invece è capitato per i selezionatori degli Oscar ‘15: ha avuto ben 9 nomination, tra cui tutte le più importanti.
In un certo senso questa divaricazione di giudizi non mi ha stupito. Le valutazioni Usa sono date da una giuria diffusa, a diversi gradi, di diverse centinaia di persone: ma per lo più, se non tutti, di addetti ai lavori.
Cioè: non “critici di  qualità”, il cui concetto è molto labile, approssimativo e soggettivo, come avviene in molti Festival europei; ma di gente che ci lavora nel cinema e che quindi sono in grado di rendere un giudizio professionale, senza dimenticarsi che essi stessi sono anche “pubblico pagante”.
Ciò, in parte, spiega l’arcano per cui i vincitori dei Festival europei  – Venezia en téte … – dichiarati da ristrette giurie spessissimo condizionate dai suoi presidenti, piacciono a pochissimi eletti e non di rado non se li fila nessuno del pubblico …
“Birdman” è comunque un film altamente intellettuale: la sfida di Riggan, alle prese con un testo, già di per sé difficile e ostico, non è solo con i ritmi del teatro – che non sono quelli del cinema – ma è soprattutto con sé stesso, le sue ansie, le sue insicurezze, errori e tremori.
Il set è davvero un famoso teatro, il St. James Theatre sulla 44esima a Broadway. E la sua ambientazione lo fa divenire un sito labirintico, come dipanato su immensisperdevoli sentieri. Tutti vi si trovano come accomunati dall’unica uscita, che non è la strada ma il palcoscenico, dove l’inquadratura si allarga magicamente e si distende fino a comprendere il pubblico, attento e attivo: un altro vero e proprio personaggio collettivo.
Solo Riggan improvvisamente e inaspettatamente si trova fuori al freddo, seminudo ed esposto ai ludibrio dei veri passanti. È stata una sequenza costruita con newyorkesi ignari: ma di effetto notevole; e provvista di un’intensa carica metaforica.
Keaton si getta a corpo morto in questa battaglia finale: anche se il sottofinale è completamente favolistico. Egli sa che tutto dipende dall’opening night e da una stampa che pregiudizialmente ostile, perché non sopporta che un divo rivoglia la sua verginità col “sacro” teatro pippeur, del narcisismo culturalizzato e portato all’ennesima potenza.
Come è delineato nel personaggio dell’attore “bravo” chiamato a sostituirne un altro, Edward Norton, la cui provenienza teatrale è nota e aiuta in questa perfida autoscansione.
Non è per niente il solito film di “teatro nel teatro”. È molto di più. Il movimento della macchina da presa e il suo montaggio nascosto è infrenabile, attentissimo e sembra che sia all’unisono e in linea col nostro sguardo. ma è un lavoro di certosina gradualità temporale e grande eccellenza.
Ma la colossale ed entusiasmante idea di regia di questo enfant prodige messicano è la musica: anzi l’intero drum score del film. È affidato ad una batteria, e basta ma suonata da Antonio Sanchez, il più grande batterista jazz, anche compositore di classica, della scena americana. Interrompe, spezza, accompagna, esalta, smorza i passaggi con un battere che assume valenze profonde e talvolta primitive, perché perfettamente in linea con le sfumature e i conflitti psicologici, veri o finti, di volta in volta affrontati.
È un ritmo che si ripercuote e riecheggia, sorprendendoci, entro di noi ben oltre la fine del film.

Francesco “Ciccio” Capozzi