Il film: American sniper

American-Sniper-Chris-KyleChris, un texano tutto muscoli, cavalli e bandiera USA, ma gran tiratore, dopo l’11 settembre decide di dare il suo contributo a Zio Tom: parte per l’Iraq. Diventa il più micidiale cecchino dell’intera storia militare.
Tratto dall’autobiografia di Chris Kyle, il film (USA, ‘14) illustra i comportamenti di questo combattente “naturalmente nato per uccidere”. Ma lo fa con un taglio, una prospettiva narrativa che non solo è originale, ma manifesta ancora una volta come il vecchio Clint Eastwood, il regista – a 84 anni! – è ancora giovane “dentro”.
Questo puro genio del cinema, rovescia dall’interno il modulo dell’autobiografia, ne scandaglia i segmenti, e vi pone delle domande, dei conflitti, che lo illustrano in modalità contraddittorie. E lo fa – e questo è il bello – rispettando la normalità esteriore delle coordinate con cui si presenta al pubblico.
È un film patriottico. Ad esempio: nel senso che tutto nasce dal senso fortissimo del protagonista, che il regista condivide e rispetta, di appartenenza alla famiglia, alla comunità civile e religiosa del suo paesotto. In una parola, ai valori USA, nel cui orizzonte il padre l’aveva educato e formato.
Clint, e il suo bravissimo sceneggiatore Jason Hall, accompagnano con concisa precisione questo percorso; ma lo pongono, nel prosieguo  dei vari turni di permanenza in Irak – quindi col manifestarsi e crescere esponenziale della sua diabolica bravura di assassino legale – sempre più in conflitto con le altre parti di sé. Quelle che lo vorrebbero tener lontano da questa forma di dipendenza dal suo uccidere, dal suo essere sempre più letale.
Noi assistiamo sempre più impotenti allo sprofondare di Chris  entro sé stesso, dimentico della famiglia, del sé “normale”. Il regista non dà alcun giudizio moralista/pacifista: ma fa impietosamente notare, grazie anche all’aderenza fisico-psichica sempre più minuziosamente, come anche drammaticamente, partecipe del suo interprete, l’attore Bradley Cooper, anche tra i produttori del film, ingrassato e “immuscolat” per la parte.
E quasi senza accorgercene ci rendiamo conto che Clint ci ha portato sulla zona oscura dell’intera America profonda. Della nazione che, alla fine, benché renda doverosamente omaggio a i suoi morti, si ritrova muta e impotente. Incapace perfino di domandarsi che guerra è stata quella che l’ha vista rovinosamente sconfitta in Irak. È una guerra che ha consumato gli esseri di un’intera generazione, togliendo ogni linfa vitale al suo agire, privandola di ogni benché minima  motivazione. La sequenza del funerale del sottofinale è estremamente significativa in tal senso.
Le citazioni di Kubrick nelle ben girate scene di guerra  hanno questa portata: nel mentre sono scanditi con precisione i tempi dell’azione, e non fa che aumentare, come un’eco insostenibile, la dimensione di dramma  nell’animo dei soldati. Li trasforma.
Tutto ciò ci è detto in un dimensione di grande spettacolo. In cui Clint, da abilissimo prestidigitatore rovescia tutti i mazzi di carte: sfidando ogni pregiudizio, ogni prevedibile obiezione. È un guerrafondaio? È favorevole alla politica iperfallimentare di Bush o’ piccirillo? Clint è talmente geniale, aperto e dostoevskiano che scavalca e ride di ogni verità preconfezionata: non perché sia cinico, tutt’altro.
Piuttosto cerca quasi disperatamente, con l’occhio acuto e cristallino dell’infaticabile cowboy che cavalca in cerca di giuste cause da sposare (come ce lo rappresentò Leone in “Per un pugno di dollari”), l’uomo dentro i drammi che sta  vivendo. Dovunque, e sotto qualunque copertura  si celino.

Francesco “Ciccio” Capozzi