Gli spaghetti e la pasta: storia e storie

Makkaroni-2Viaggiarono per mare e per terra, gli spaghetti, tanto contesi tra Napoli e Cina, dove se ne ha notizia sin dal 5000 a.C. Un origine che si perde nella notte dei tempi …
Sappiamo che a Napoli nel 1241, regnante Federico II di Svevia, in via dei Cortellari al seggio di Portanova vi era un palazzetto al numero civico 4, quattro piani e vari affittuari, tra cui la maitresse di un prostibolo, un usuraio ebreo, una coppia di noti truffatori napoletani e Chico noto alchimista, teurgo, astrologo e a tempo perso cartomante, detto ‘o Mago.
Chico ‘o Mago era molto riservato e dedito alle evocazioni negromantiche e soprattutto a studi di alchimia. In gioventù aveva viaggiato molto e appreso le tradizioni culinarie di diversi Paesi. Cominciò a lavorare su una ricetta cinese di pastasciutta filamentosa, composta da farina, formaggio, zucchero, latte, burro, che chiamò fili di spago o spaghettini.
Purtroppo una sua vicina di casa, Giovannella di Canzio, donna curiosissima e ‘nciucessa, nonché moglie procace di uno sguattero di cucina di corte reale applicò tutte le sue arti seduttorie finchè non riuscì a carpire al povero Chico il segreto della squisita ricetta. La svelò quindi al marito che introdusse gli spaghetti alla tavola reale di Federico II.
Di lì a poco un cuoco delle reali cucine, munzù Federico Esposito – era l’anno di grazia 1260 – alla corte di re Manfredi inventò dei maccheroni con orlatura, detti manfredi in onore del nuovo sovrano, conditi con zucchero, basilico e ricotta.
100 anni prima di Cristo la lasagna napoletana si diffondeva primeggiando su quella emiliana già ai tempi degli antichi romani in villeggiatura sui nostri litorali, ben descritte da quel buongustaio del poeta Orazio in una sua satira sulla tavola di Mecenate. Erano anche il piatto preferito da Cicerone, ma fu soprattutto Marco Gavio Apicio, cuoco dell’imperatore Traiano, che nel suo “De re coquinaria libri” ne ha tramandato la preparazione. Le lasagne, alternate a carne, uova, pesce, venivano condite con olio d’oliva e pepe. Apicio nel suo trattato parlava di laganon, il matterello di legno, che in napoletano viene chiamato laganaturo.
Era una tale leccornia che in tempi più vicini a noi, ne decantarono la squisitezza anche Cecco Angiolieri e Jacopone di Todi.
Nel 1305 sorse ad Amalfi la prima fabbrica di maccheroni napolitani. Nacquero altri formati di pasta, come le fettuccine care ai Cavalieri Templari.
Da 1550 in poi furono impiantate fabbriche di maccheroni napoletani anche a Gragnano e Lettere, accompagnati dal gustoso vino locale.
Intanto era avvenuto lo sposalizio delle lasagne con il sugo di pomodoro, arrivato sulle tavole dalle Americhe. La ricetta si arricchiva sempre più del suo gusto particolare: il pasticcio di pasta veniva condito a strati con salsa, ricotta, formaggio pecorino, oltre a olio o strutto e sale.
La pasta di ogni formato diventò la regina dell’alimentazione e a Napoli in pieno settecento i maccarunare agli angoli delle strade li cuocevano in grossi calderoni di rame e li vendevano conditi con sugo di pomodoro nei cuoppi, in particolar modo gli spaghetti. Venivano mangiati con le mani, attorcigliandoli con destrezza. Ogni cuoppo costava un grano di rame, che era la centesima parte del ducato napoletano, la moneta napoletana. Era un pasto sano e genuino che sfamava ed era a portata di tutte le tasche: all’epoca equivaleva ad un centesimo di franco francese e 40 centesimi di lira piemontese.
Gli spaghetti napoletani erano i preferiti di Ferdinando IV di Borbone, che non sapeva resistervi e li mangiava ovunque si trovasse. A palazzo reale li mangiava con la forchetta – inventata da un cuoco alla fine del ‘400 a Madrid per la regina Isabella di Castiglia – ma altrove con le mani, ricevendo gli applausi del popolo e rimbrotti della consorte Maria Carolina d’Asburgo, che assolutamente non ammetteva questa ruspante abitudine.
Anche l’abate Gorani, Giulio Cesare Cortese, Giovan Battista Basile, Goethe andavano tutti pazzi per spaghetti e pasta in genere.
Tra il 1660 e il 1700 sorsero fabbriche di maccheroni di Torre Annunziata e di Cicciano, che rivaleggiavano per la bontà del prodotto con gli stabilimenti più.
Alla tavola di Ferdinando nel 1768 anche i suoi cognati, l’imperatore d’Austria Giuseppe e Leopoldo granduca di Toscana si innamorano dei cannelloni e della lasagna napoletana, tanto che nel 1770 lo Stato Pontificio introdusse una tassa doganale sull’importazione dei favolosi maccheroni napoletani, che si prestavano magnificamente alla realizzazione di pietanze come l’amatriciana e la pajata.
Si racconta inoltre che don Ferdinando Borbone-Parma, sfuggito all’arresto della gendarmeria pontificia, riparò a Napoli, dove amava gustare nelle taverne squisiti piatti di pasta. Irretito da una donna napoletana, sazio ed ebbro di vino di Gragnano e Lacrima Christi, venne derubato. Chiese allora ospitalità al principe Vincenzo de Sangro, e qui con gusto mangiò lasagne cannelloni e spaghetti. Fu poi ospite in casa del medico Domenico Cirillo, dove le gozzoviglie continuarono. Pare che nel 1792 Ferdinando Borbone-Parma morisse per indigestione dopo aver mangiato due mozzarelle di bufala di Mondragone e ulive di Gaeta, oltre all’immancabile scafarèa di pasta …
Nel 1773 venne impiantata a Portici la Real fabbrica di maccheroni che produceva rinomate linguine, ziti, maltagliati, che venivano gustati insieme al pesce che veniva pescato a Santa Lucia dal re che prima lo rivendeva ad una trattoria di Mergellina e il rimanente nel porto militare del Granatello. Poi lo friggeva nel giardino della reggia porticese e lo gustava con gli amici, tra cui il principe Francesco d’Aquino di Caramanico, che le malelingue dicevano fosse l’amante di Maria Carolina.
E si dice che fu in una famosa taverna di Portici che nacque l’usanza della mangiata di spaghetti a mezzogiorno in punto, quando il sovrano si affacciava dal balcone della Reggia mangiando spaghetti con le mani e invitava il popolo a fare lo stesso.
Nel 1816 giunse a Napoli il musicista Gioacchino Rossini invitato da Domenico Barbaja, impresario del Teatro di San Carlo per scrivere la sua opera “Otello” dopo il fiasco romano di “Il barbiere di Siviglia”, offrendogli pianoforte, letto, vitto e alloggio con servitù nel bel palazzo Berio in via Toledo. Segregato in casa dal Barbaja perché non si distraesse, il ghiottone Rossini ingrassò a vista d’occhio. Dal momento che pensava solo a rimpinzarsi di pizze, gelati, maccheroni e lasagne, ma soprattutto tanti spaghetti alla Pulcinella, la famosa maschera napoletana che li pubblicizzava in tutto il territorio, l’impresario gli tolse servitù e maccheroni mettendolo a stretto regime di brodini per costringerlo a scrivere l’opera.
E fu proprio il Rossini che pubblicizzò enormemente i maccheroni di Napoli in tutta Europa: mangiava ovunque fosse davanti al suo cembalo o al pianoforte una zuppiera di maccheroni o alternato a pranzo e cena lasagna e gli immancabili spaghetti.
Carlo Tito Dalbono, critico d’arte padre del pittore Edoardo, in un suo scritto, riportato nel 1843 in “Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti” di Francesco De Bourcard, cita le varie fabbriche di maccheroni presenti sul territorio. Parla non solo di maccheroni, ma anche di gnocchi prodotti ad Amalfi, Sorrento, Afragola e Volla, cotti nell’ampia caldaia maccaronense e serviti fumanti nel bacile, la scafarèa napoletana, con formaggio bianco con strisce nere di pepe e di olive nere, con sopra i maccheroni e la salsa di pomodoro in cima.
Spesso attorniato da vongole e cozze del Fusaro, anche Francesco I di Borbone era un gran ghiottone di pizze, gelati, dolci, maccheroni e spaghettaro d’eccezione. Durante il suo regno si ricorda il famoso pranzo di corte del luglio 1824 a base di maccheroni offerto alla Reggia di Portici dalla duchessa di Lucca Maria Luisa e da suo figlio Ferdinando di Borbone-Parma, servito da contadine in gonna corta nel parco del bosco reale.
In seguito re Ferdinando II potenziò l’industria e l’artigianato della pasta nel Regno, occupando tanti sudditi nelle diverse attività connesse alla produzione. Anche l’ultimo re Francesco II era ghiotto di cannelloni ma soprattutto di lasagna, tanto che gli valse l’affettuoso nomignolo paterno.
Rimangono famosi i 114 modi di cucinare gli spaghetti napoletani classici secondo Alberto Consiglio e la grande pubblicità fatta da attori e artisti napoletani come Totò.
Nel 1968 a Napoli si rilanciò ancora il tema letterario-culinario dei maccheroni sempre ad opera di Consiglio, con Mario Stefanile, Virgilio Lilli, Giuseppe Longo, Paolo Monelli. Il giornale “Il Mattino” del 24 aprile istituì il famoso premio “Gli spaghetti d’oro” a firma di Renato Filizzola. La giuria era composta da Mario Missiroli, Giuseppe Dell’Ongaro, Italo De Feo, Gino De Sanctis.
Partendo da ricette napoletane sui maccheroni, dal Boccacio al Basile e al Rossini fino alla lasagna del 1600 e gli spaghetti del 1241, si selezionarono cinque elaborati di scrittori napoletani. Il premio fu consegnato dal ministro dell’Industria e in quell’occasione venne ricordato l’incontro del 1860 a Teano tra re Vittorio Emanuele e Garibaldi, che insieme gustarono per la prima volta i famosi fusilli.
Sempre in tema, il 23 maggio 1963 a Napoli fu costituito l’Ordine dei Cavalieri del Supremo Ordine Cavalleresco Gastronomico del Pignato Grasso. I membri erano cuochi e scrittori napoletani famosi per aver riprodotto e raccontato le ricette più antiche sui maccheroni e la lasagna, sul ragù e sul soffritto napoletano.
La Regina Pasta è alla base della dieta mediterranea, vanto mondiale insieme alla pizza e ai dolci. Gli squisiti dolci napoletani di cui mi occuperò in un prossimo articolo sulla storia dei locali gastronomici che sono sempre sorti all’ombra del gran padre, il Vesuvio.

Michele Di Iorio