Napoli della Ferrovia

sfogliatellePiazza Garibaldi, polvere, auto, motorini che sfrecciano con a bordo due tre persone senza casco. Rumori, colori svariati,  voci e lingue si confondono in un unico impasto sonoro, informe. Su tutto regna il rumore del traffico.
È sempre e da sempre così.
L’impressione che si ha, entrando a Napoli dalla stazione centrale, è quella di una città caotica, sporca, pericolosa. L’eterno cantiere della nuova metropolitana al centro della piazza la divide in quattro lati. Palazzi alti che fungono da supporti per giganteschi cartelloni pubblicitari. Volti ambigui che sembrano volerti fregare ad ogni passo.
Un gruppo di cinque uomini e una donna intorno ad un tavolino alto, coperto da una piccola  tovaglia bianca. Sopra tre campanelle di ottone, dentro una di quelle una pallina, che abilmente uno di loro sposta e gli altri, complici, fanno finta di scommettere soldi per far cascare qualche sprovveduto passante nella trappola.
Più avanti, confusi tra tassisti e nullafacenti, brutti ceffi propongono per affare telefonini e piccole apparecchiature elettroniche, ma l’affare sarà solo il loro. Tutto nel tacito consenso, suppongo sofferto, di decine e decine di commercianti di telefonini e piccole apparecchi elettronici, tra l’impotenza di quei pochi vigili urbani, che fanno finta di non vedere.
Stranieri, extracomunitari di ogni etnia, fermi o che si spostano a passo veloce in cerca di un lavoro giornaliero o un posto dove andare a dormire. Prostitute, belle e brutte, giovanissime o vecchie e cadenti, davanti all’ingresso di ambigui alberghetti, adescano il viaggiatore di passaggio.
Quella piazza e tutte le strade adiacenti sono caratterizzate dalla presenza di attività commerciali di ogni tipo, negozi di elettrodomestici, di telefonini, di computer, di alimenti afgani, cinesi, marocchini e tanti altri negozi. L’ultimo elemento decorativo di tantissimi di questi negozi è una lanterna rossa di carta di riso. È il segno distintivo della nuova imprenditoria che si è impadronita di quei luoghi, è cinese.
In una traversa della piazza c’è una  famosa pasticceria  specializzata in sfogliatelle.
È un locale bianco, con un grande bancone di marmo sovrastato da una vetrina. Sembra un altare nel tempio del piacere. I vetri del bancone sono sempre appannati dal calore dei dolci appena sfornati. Un odore dolciastro invade l’aria. È un odore caldo. È mattina,  il locale è già affollato. È  sempre affollato.
A qualsiasi ora del giorno e della notte, impiegati, operai, donne, giovani, studentesse, donne anziane, qualche bambino, turisti in transito che aspettano l’orario di partenza, tutti leggermente chinati che tengono con due mani il dolce, spolverato di zucchero bianco.  Ognuno di loro appena da un morso fa una smorfia, tra il piacere e il dolore.
Sì! Perché se la sfoglia lamellare fuori è calda la ricotta dentro è rovente.
Stamattina c’è tanta gente, tutti in silenzio. Si sente solo un gran fruscio, è la pasta sfoglia del dolce masticata da decine e decine di bocche.
Mi avvicino alla cassa, ordino la mia sfogliatella. Pago. Sorridendo mi avvicino al bancone. Sul bordo del vetro di quel bancone decine di mani sventolano un fogliettino bianco, lo scontrino. Aspettano  silenziosamente il proprio turno.
Un ragazzone alto e sorridente mi chiede lo scontrino dicendo:
«Dottò còmme ‘a preferite, ricce o frolle? »
«Riccia, grazie».
«’O vulite nu poco ‘e zucchero ‘ncoppa? »
Senza aspettare risposta il ragazzone agita un barattolino di alluminio. È un po’ ammaccato. Spolvera quell’incanto. Una nuvola, dolce neve profumata e sottile.  Alle spalle del ragazzone, appeso sul muro da chissà quanti anni, un grande cartello rosso con una scritta bianca: «Napule tre cose tene bbelle: ‘o Mare, ‘o Vesuvio, ‘e Sfugliatèlle ».
Mi appresto a dare un primo morso. «Frrrrrrrrrrrrr». Mentre mastico, quel friabile rumore si amplifica nella bocca come il suono di spettacolari fuochi d’artificio.
Chiudo gli occhi. Il delicato sapore mi riempie la bocca coprendo il bruciore della ricotta rovente. Mi scotto la lingua. Mangio e rido. Lo zucchero cade imbiancandomi i jeans.  Esco sazio di quella bontà e con un sorriso sulle labbra.
Un gruppo di uomini, neri di pelle, forse africani, camminano con un fiero andamento. Sembrano guerrieri di una antica tribù, pronti per affrontare la giungla di cemento. Sono vestiti con abiti occidentali. Portano con loro borsoni di mercanzie al posto degli archi e le frecce. Sono diretti anche loro al tempio della sfogliatella per il rito pagano della mattina. Posano i borsoni pieni di merce a terra. Si accorgono che li guardo. Sorridendo gentilmente mi salutano.
Dall’altro lato della strada piccole donne cinesi ordinano  gli oggetti  sul loro esile banchetto. Oggetti prodotti nel loro paese. Perfette imitazioni di quelli europei,  piccoli strumenti elettronici, utensili, lenti. Il bambino seduto sul bordo del marciapiede sorride ai passanti distratti.
Poco più in là tanti furgoni, dai  vetri coperti da piccole tende, scaricano, come fossero merce, giovani donne. Sono quasi tutte  bionde, con luminosi occhi azzurri e verdi. Occhi stanchi, forse da lunghi giorni di viaggio.
Sono guidati da strani individui quei furgoni. Si dice che in quei lunghi viaggi, oltre a quelle donne, che cercano fortuna o familiari in Italia, sono trasportate anche merci illecite.
È Napoli, è sempre così da sempre, a qualsiasi ora, di qualsiasi giorno.
Brulicante di vita e di disperazione.
È  la Napoli della Ferrovia.

 Mario Scippa