Philomena

philomenaIrlanda, Anni ’50: Philomena, giovane ragazza-madre, è costretta, dalle suore dell’Orfanotrofio in cui era ospitata a dare in adozione suo figlio, senza sapere a chi. Dopo 50 anni con un giornalista free lance torna sulle sue tracce.
«Ah, l’Irlanda cattolica e clericale! », verrebbe voglia di dire di fronte a questa storia vera: quante vite sono state spezzate da un malinteso senso religioso, che diventa conformistico e assoluto controllo delle esistenze, specie quando diventano “peccaminose”. Non esiste né pietà né compassione.
Però la qualità del film (UK, ‘13), che è notevole, non si basa sulla rivalsa da parte di questa vittima; o sulla denuncia di questo vero e proprio crudele abuso. Questi aspetti sono “giocati” sul duplice fronte dei personaggi protagonisti: il giornalista contemporaneo e “scafato” laico, poco incline alla mediazione, e perciò critico spietato di quel modo di fare, e  la donna che invece ha introiettato il senso di allontanamento dal figlio, in qualche modo giustificando le suore-arpìe, che, tra l’altro hanno ben lucrato da questo mercimonio di infanti eretto a sistema.
Quel che a lei importa è il solo sapere dove sia suoi figlio, se è felice. A lei non interessa la giustizia in astratto: è donna solida, pratica  e popolare. La sofferenza di questo allontanamento forzato l’ha macerata per tutta l’esistenza, nel silenzio e nella solitudine della sua anima, pur avendo famiglia e un suo ruolo.
Judy Dench, l’attrice inglese che va dalla commedia al dramma e al film d’azione, con un’eleganza, un’autorevolezza, una personalità senza pari, ne dà un’interpretazione memorabile; e regge tutto il film.
Interiorizzata senza alcun eccesso di esteriorità; controllata ma ricca di ulteriori sfumature, si libra con arguta e simpatica leggerezza tra le trappole del sentimentalismo, senza rimanerci.
Il regista Stephen Frears, un “grande” del cinema inglese, ha avuto il coraggio autorale di costruire un grande melodramma, senza essere banalmente lacrimevole, o a tesi precostituita.
I duetti tra l’attore Steve Coogan, anche sceneggiatore, hanno la deliziosa freschezza di una commedia, pur essendo rigidamente incastonati nelle volute di un dramma: ma è una modalità intelligente che nel mentre  accompagna il crescere del rapporto tra i due, ci porta alla soluzione del mistero e delle conseguenze derivate.
Lo sciogliersi della quest (ricerca) evoca un andamento ciclico cui, insieme al perdono, è comunque attribuita una precisa responsabilità gravissima. Resa ancora più scandita perché è accompagnata da un approccio sereno, che non solo ha superato l’odio e il rancore, ma ha preso coscienza di come questa sofferenza inferta a tante madri, sia diventata una sorte comune.
La sequenza di quel seminascosto cimitero è impressionante nella sua silenziosa, gelida prospettiva di rimozione. Che, di fatto, continua ancora oggi nell’ipocrita finto-solidale  accoglienza delle suore di oggi che tentano di superare senza affrontare le loro precise responsabilità collettive.
Mi ha ricordato le sorti dei “Figli” rubati dai militari golpisti tra il 76 e l’84 ai desaparecidos argentini.

Francesco “Ciccio” Capozzi