Il film: The Lunchbox

Lunchbox

Mumbay, India: i Dabbawallahs sono i famosi portatori di pranzo caldo da un punto all’altro della città. Rarissimamente fanno degli errori: in uno di questi, un vedovo, conosce una bravissima cuoca, ma donna infelice.
Dall’India, anche grazie ad una coproduzione franco-tedesca, e ad un distributore coraggioso – la Academy 2, erede di una stimata distribuzione d’essai degli anni ‘80 e ’90 – arriva questo delizioso film (2013).
La produzione cinematografica indiana è una delle più rilevanti al mondo: quantitativamente anche più di quella hollywoodiana; essa è concentrata a Bollywood, ma non solo, che sarebbe Bombay, oggi Mumbay, divenuta la Hollywood indiana.
Ha un mercato interno sterminato, nelle varie lingue colà parlate; sono soprattutto musical, sia moderni che epico-favolistici, legati alla complessa mitologia hìndu. Poi, accanto a questa, c’è una tradizione, sicuramente meno famosa, ma di grande prestigio culturale, che presentava film intimistico-realistici, affini al neorealismo italiano.
Il suo più prestigioso esponente, conosciuto all’estero è stato Satyajit Ray; un altro è stato Mrinal Sen. Oggi numerosi e talentosi registi indiani sono attivi a Hollywood.
L’autore di questo film, Ritesh Batra, ha firmato anche la sceneggiatura, ed è alla prima significativa prova, pur avendo già lavorato fuori del suo Paese. Aderisce alla meno popolare in patria delle due tendenze delineate, ma sicuramente più spendibile all’estero.
Il ritratto del vedovo, ironicamente chiuso nel suo isolamento, ma di cui avverte l’arida dimensione di distruttività e drammaticità, è resa con profondità e gentilezza da un famoso attore indiano, Irrfan Kahn, che è anche tra i produttori del film, noto anche all’estero: era tra i protagonisti dell’hollywoodiano ”Vita di Pi” del suo connazionale M. Shyamalan.
Non poteva essere resa con maggiore aderenza quella dimensione resa ancora più stridente dal conflitto con la continua, pressante, incessante pressione della folla della città.
Una metropoli, Mumbay, immersa attraverso i suoi vitali colori in un’umanità sterminata, vivacissima, dinamica; sicuramente povera, ma dotata di una contagiosa voglia di dare scosse al proprio vivere.
Lo sguardo del protagonista alla numerosa famiglia dei vicini, che consuma un pranzo collettivo pieno di relazioni almeno all’apparenza solidali, è intriso di malinconia; il suo salutarsi con la bambina è un gesto di tenera umanità.
Così la donna è tratteggiata con precisa concentrazione di tratti umani. In un ambiente ristretto, ma odoroso di spezie, c’è la propria devozione, il proprio desiderio sopito per un marito distratto sicuramente fedifrago.
Il suo rapporto con la famiglia ha un lato umoristico di dialogo con una zia che non vediamo mai, ma che interviene sempre “in voce” e con un provvidenziale panariello calato dall’alto.
Poi c’è il praticante del vedovo: un personaggio che parla sempre, ma è portatore di una diversa forma di solitudine.
L’intreccio di questi personaggi è organizzato con meticoloso rispetto di spazi e tempi.
C’è da una parte la conoscenza dei ritmi della commedia sentimentale Usa; ma dall’altra una visione autorale che non è invadente, ma attenta e rispettosa.

Francesco “Ciccio” Capozzi