Napoli, culla dell’archeologia

Lo stile neoclassico in Italia è sorto dall’amore per l’archeologia, e possiamo dire che lo stile edile pubblico e privato e l’archeologia regolare e moderna siano nati nel Regno delle Due Sicilie con re Carlo III di Borbone.
Infatti, nel 1738 fu l’ingegnere spagnolo Roque de Alcubierre, generale di brigata del re, ad iniziare gli scavi archeologici di Ercolano: utilizzando come manovali galeotti scortati da truppe di linea, riportò alla luce l’antica città greca di origini etrusche. I reperti archeologici furono conservati nella nuova Reggia di Portici.
S’iniziò poi a scavare una villa romana di Oplonti vicino Torre Annunziata, la famosa villa di Poppea, moglie di Nerone e cosi nel 1750 gli scavi archeologici di Paestum, nel salernitano.
Nel 1748, con grande soddisfazione del re, l’ingegnere militare Medrano, anch’egli generale di brigata, iniziò gli scavi a Pompei, che con Stabia ed Ercolano furono distrutte dall’eruzione pliniana del Vesuvio del 79 d.C.
Intanto Carlo nel 1759 lasciò il trono di Napoli per quello di Madrid; raccomandò al ministro Bernardo Tanucci di proteggere come opere pubbliche demaniali tutti i ritrovamenti archeologici del Regno attraverso apposite leggi: i’idea era quella di programmare scavi regolari archeologici moderni.
In questo progetto fu ben consigliato dal principe e colonnello, scienziato e letterato Raimondo de Sangro. Re Carlo aveva così a cuore Arte e Archeologia che nel 1755 fondò l’Accademia Archeologica Ercolanense e nel 1757 l’Accademia di Belle Arti; lo stesso principe di Sansevero tentò di recuperare e decifrare i papiri di Ercolano carbonizzati dalla lava trattandoli chimicamente.
Il Tanucci continuò a proteggere questo sensibile progetto su arti e archeologia anche sotto il figlio di Carlo, re Ferdinando IV, animo sensibile al bello, anche se non molto erudito grazie alle convinzioni del principe di Sannicandro, alla cui educazione fu affidato ad appena otto anni quando i genitori partirono alla volta della Spagna; Sannicandro infatti asseriva che nella formazione di un sovrano non contasse tanto la cultura.
Nonostante questo, Ferdinando durante gli anni del suo regno si prodigò sempre a favore della cultura, in linea con le aspirazioni paterne; infatti nel 1772 fu lui a fondare l’Accademia di Belle Lettere.
Gli scavi archeologici procedevano però male e a rilento; gli operai usavano vanghe, badili, zappe, forconi, roncole, strumenti inadeguati che spesso danneggiavano gravemente i reperti.
Fortunatamente nel firmamento dell’archeologia borbonica salì per caso un astro, se il caso esistesse:  Andrea de Iorio, il più grande archeologo ed etnografo italiano, nato a Procida il 16 febbraio 1769.
Il de Iorio studiò Teologia a Napoli con docenti come Bernardo Della Torre, padre Somasco e il professore sacerdote Antonio Scotto di Luzio, astronomo, matematico fisico, meccanico, conoscitore di greco, latino, francese e insegnante di storia naturale.
Nel 1788 Andrea de Iorio divenne segretario personale di suo zio paterno don Giuseppe  vescovo di Samaria, e nel 1792 si laureò a pieni voti in Teologia e nel 1795 anche in Diritto Canonico.
Nel 1793 prese i voti religiosi, operando poi al Duomo di Napoli.
Continuò a studiare frequentando le biblioteche dell’Università, dei Girolamini e del Gesù Nuovo: nel 1798 conseguì la terza laurea in Lettere e Filosofia.
Il giovane re Ferdinando gli diede l’incarico di raccogliere in un Museo statale i reperti arheologici conservati in ordine sparso per i suoi palazzi reali.
Espulsi i gesuiti nel 1767 dal Regno delle Due Sicilie, il Museo trovò sede nei locali dell’ex convento gesuita del Salvatore di via Foria.
Nacque così nel 1787 il Real Museo di Napoli, nelle cui sale trovarono giusta collocazione tutti gli oggetti delle collezioni personali dei Borbone.
Il giovane sovrano e il giovane sacerdote archeologo insieme formavano una coppia assortita: di personalità e carattere diametralmente opposti, non furono certo in sintonia. I preconcetti di Ferdinando, lo “zampino” di una corte pettegola e la credulità popolare impedirono la realizzazione di quell progetto che doveva imprimere l’impulso che mancava allo sviluppo dell’archeologia.
Durante il breve intermezzo murattiano, Andrea de Iorio venne invece trattato con rispetto e considerazione per la sua cultura: nel 1808 fu infatti nominato prefetto del Real Museo Archeologico e nel 1809 Ispettore generale della Pubblica Istruzione del Regno e nel 1810 promosso a Direttore nazionale, e nel 1811Real Conservatore della sala de cimeli archeologici.
Membro dell’Accademia di Storia e di Antichità, Cavaliere dell’Ordine Cavalleresco  delle Due Sicilie, autore di testi, studioso dalle mille competenze e capacità, Andrea de Iorio era dunque l’uomo giusto al posto giusto.
Nonostante questo, quando nel 1815 Ferdinando ritornò sul trono, non aveva superato i preconcetti nei confronti dello studioso, sebbene de Iorio nel frattempo avesse indubbiamente migliorato il sistema di scavi e riorganizzato tutto il settore archeologico in modo eccellente.
Appena rientrato a Napoli da Palermo, nominò al suo posto il procidano Angelo Antonio Scotti, professore universitario di Paleografia, socio dell’Accademia di Storia e Antichità: nel 1816 divenne prefetto della Biblioteca Reale di Napoli e di Caserta e cosi della biblioteca universitaria.
Andrea de Iorio continuò a pubblicare moltissime opere di carattere archeologico o storico o letterario, incontrandosi con tanti studiosi d’oltre confine.
Ma niente, Ferdinando non riconosceva mai alcuno dei suoi tanti meriti.
Altri sovrani europei in visita a Napoli invece lo apprezzavano e lo nominavano socio di Accademie culturali e archeologiche del loro Paese; il re di Danimarca lo insignì della Croce di Cavaliere dell’Elefante e l’imperatore di Germania Federico Guglielmo lo nominò Cavaliere dell’Aquila rossa e cosi il re di Sassonia, ma nessuna onorificenza borbonica.
Dovette aspettare anni e altri sovrani per essere nominato cavaliere, nel 1832; nel 1833 socio accademico ercolanense per il settore archeologico e soprintendente degli scavi di Pompei, Stabia e Ercolano, nel 1835, sovrintendente generale della pubblica istruzione del Regno delle Due Sicilie nel 1838, direttore del Museo Archelogico Nazionale nel 1839 e prefetto della biblioteca reale nel 1840.
Divenne poi il beniamino dello Zar di Russia in visita a Napoli nel 1844: Alessandro II lo ricoprì di incarichi ed onorificenze e lo chiamò a far parte del Congresso degli Scienziati del 1845.
L’anno seguente venne nominato socio della Real Accademia Pontoniana e nel 1847 fu presidente dell’Accademia di Storia Patria di Napoli.
Nel 1848 finalmente occupò il posto che assolutamente gli competeva: divenne presidente dell’Accademia Ercolanense.
Nei 1849 incontrò tra Napoli e Portici il Santo Padre Pio IX che lo benedisse e lo nominò Cavaliere del Santo Sepolcro, Gran Croce dell’Ordine Gregoriano, assistente al Soglio pontificio, conte palatino di Roma e Guardia d’Onore di Napoli al Sommo Pontefice.
Il suo ultimo libro, datato 1839, era una guida delle Catacombe di San Gennaro, ove fu iniziato nel 1828 lo scrittore inglese massone e rosacruciano Lytton, autore di libri che ispirarono tanto il nostro Andrea.
Andrea de Iorio morì a Napoli il 1 febbraio 1851 e venne seppellito con tutti gli onori di corte nella basilica di Santa Resistuta.
L’iscrizione sulla lapide del suo sepolcro fu opera dell’archeologo ed epigrafista napoletano Bernardo Quaranta.
Michele Di Iorio