La via Emilia ha duemila anni

Lepido Gaphur, decurione del Genio, della Quarta Cohors,  della Legio Octava “Aemilia”, si aggirava per i percorsi della Strata Aemilia (la Via Emilia).
Piccolo e magro, aveva solo 20 anni, quando una pietra lanciatacon una fionda da un ribelle irriducibileappartenenti ai Galli Boi in uno dei frequenti attacchi a sorpresa gli fracassò il cranio.
Essi non tolleravano che i Romani, che li avevano sconfitti, costruissero la Via Emilia. Questa strada avrebbe collegato Placentia (Piacenza) ad Ariminium (Rimini), attraversando la Pianura Padana; mentre a Rimini arrivava l’altra fondamentale via Consolare: la Flaminia che partiva direttamente da Roma.
Ma di questo assetto strategico il nostro geniere aveva una nozione generica, anche se era consapevole e orgoglioso di appartenere all’esercito di Roma: in vita era troppo giovane per percorrerle tutte, queste arterie in cui scorreva la vita economica della Repubblica di Roma.
La sua Legio era stanziale e legata a quella regione geografica, appunto l’VIII.
Suo padre era uno schiavo di origine gallica, liberato da Marco Emilio Lepido: perciò la famiglia ne aveva assunto il nomen.
Era entrato giovanissimo nell’Esercito e si era distinto per il coraggio, l’intelligenza, l’energia  nell’adoperarsi: specie quando c’era un problema di origine pratica o di tecnica ; ne trovava la soluzione, in modi spesso brillanti e originali.
Perciò da poco era diventato, benché giovanissimo, decurione: aveva sotto di sé una squadra di  dieci uomini, e godeva della fiducia e della benevolenza del Centurione Primipilo (l’immediato vice del Console).
Nel marzo di quell’anno (il 187 a.c.; ovvero il 740 Ab Urbe Condita, in cui fu ultimata: esattamente 2000 anni fa), stava svolgendo un lavoro di grande importanza: la rimozione dell’ultimo lembo di selva, che avrebbe resa finalmente ininterrotta la linea della strada.
Non era un lavoro semplice, perché si trattava di scavare tra roccia e bosco e di livellare nello stesso tempo: ma questa responsabilità di cui era stato investito, era  stato un riconoscimento al suo lavoro che l’aveva assai reso fiero;  sicuramente gli avrebbe aperta la strada per il grado di Centurione: lui ex schiavo da una sola generazione diventare un ufficiale dell’esercito di Roma!
E quando si accorse, dopo l’impatto col sasso che l’aveva fatto stramazzare al suolo in un lago di sangue,  di non essere più nel mondo dei vivi, questa rabbia e l’angoscia di non aver potuto portare a termine il lavoro lo invase con un’energia belluina, che lo tenne nel mondo, anche se in una non- vita.
E così il soldatino del genio militare da allora, né vivo né morto, sempre col suo zainone (l’impedimentum) in spalla, si trovò a percorrere tutta la via Emilia: prima in avanti  fino a Rimini, poi verso Piacenza; poi di nuovo da lì a Rimini e così via; avanti e indietro…
Sempre, senza mai potersi staccare da questo destino: tanta era la rabbia che lo animava per non aver portato a termine il lavoro da cui si aspettava riconoscimenti e gloria  che lo teneva in quello stato, per tutti questi secoli. Da solo, sempre  da solo,ogni tanto vedeva qualche pietra che si sconnetteva dal fondo della strada, prendeva la picozza e il badiletto d’ordinanza, e cercava di sistemarla … Ma ovviamente invano, perché era puro ectoplasma, e gli strumenti di lavoro, non avevano presa sul terreno.
E cammina cammina; sempre a procedere, sempre , senza né stancarsi né fermarsi. Vedeva le trasformazioni avvenute lungo la Via Emilia: ma le aveva viste mano mano affermarsi: e perciò non se ne stupiva più di tanto.
Solo quando per la prima volta sentì il rumore infernale dei primi camion a motore, capì che c’era stata una trasformazione irreversibile.
Prima si spaventò: una sensazione tremenda, come  se fosse sceso un Demone dall’Olimpo; ma si rese conto dell’assoluta normalità dell’uomo che lo guidava.
E poi si rese conto, quasi definitivamente, che la Via Emilia non era più importante come  ai suoi tempi; o come anche lo era stata per molti secoli dopo.
Aveva visto crescere gli agglomerati: da sparute case raccolte aveva visto nascere delle città alcune grandi come la Bonomia (Bologna) che era attraversata dall’Emilia.
Ma non era più da secoli LA via, ma era una della tante strade che s’incrociavano.
Anche perché vedeva, parallelo alla Strata, quello che doveva essere unvarco molto largo, dove i rumori dei motori davano a intendere che lì c’era il movimento vero, ancora più forsennato di quello che osservava all’interno dei pagi (paesi), attraversati dalla Via.
Anzi, quelli che l’abitavano manco sapevano più che quella era una delle Reginae Viarum, come i Tribuni  della Legio chiamavano le strade Consolari; e l’Emilia si restringeva in viottoli che attraversavano le città, in modi che gli davano solo malinconia.
Ma lui procedeva: incontra casolari, incontra prati dove mucche in strani recinti pascolavano.
Gli alberi – quelle amorevoli querce all’ombra delle quali era così dolce fermarsi e sentirsi protetti col fresco sussurrare delle foglie e dei rami dal forte sole estivo-, ormai non esistevano più; oppure se c’erano, erano divenuti smunti e rachitici e  le loro fronde avare, perché intente solo a sopravvivere.
E poi sentiva, ancora più a nord, un rumore, continuo, persistente, pesante, di uno sferragliare: si, come di ferro contro ferro, sempre più veloce, sempre più costante e ripetuto. Ormai si era abituato: ma pure diquesto aveva avuto gran paura le prime volte che l’aveva sentito.
E intanto il piccolo legionario va, incerto nella luce, senza lasciarsi sopraffare dall’angoscia della solitudine e dell’impotenza.

Perché egli è un soldato, e nulla di diverso potrebbe o saprebbe fare …

(Foto: web)

Francesco “Ciccio” Capozzi