Il racconto: Il ritorno dall’aldilà della mafia

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Un altro racconto di Fabio Giampaglia, metalmeccanico prestato alla scrittura o forse, meglio dire uno scrittore prestato all’Ansaldo.
Fabio stavolta ci porta tra gli incubi dei malavitosi; e sì, sembra che anche loro ne abbiano, proprio come noi comuni mortali.
Il nostro peggior incubo che ha gli incubi, su questa cosa varrà la pena pensarci, per affrancarci un po’ dal deleterio influsso che cosa nostra ha su di noi.
Ad ogni modo il racconto ci apre un breve squarcio nella psiche di un mafioso, nella quale all’improvviso coagula tutto il male, che ha fatto e che ha conosciuto, in un’unica soluzione, quella fatale, quella letale. Buona lettura.

                                                                                  Ciro Teodonno

 

Il ritorno dall’aldilà della mafia

 «Lo stiamo perdendo!» Il dottore, con voce forte e decisa, si rivolse all’assistente: «Defibrillatore.»
«Ecco il defibrillatore.»
Il monitor faceva un suono acuto e interminabile.
Il dottore impugnò l’apparecchio e liberò una prima scarica da 200 Joule.
Il corpo mollo di Tony Lo Cicero schizzò dal tavolo operatorio, e ritornò più morto di prima nella posizione in cui era.
Il dottore liberò una seconda scarica da 300 Joule.
La carne morta di Lo Cicero si contrasse e ricadde flaccida come un filetto di vitello tenero tenero.
Una terza scarica da 360 Joule, e finalmente sul monitor cominciò un suono interrotto.
Il cuore di Tony Lo Cicero aveva ripreso a battere.

 Una settimana dopo…

Tony Lo Cicero, a capo del letto, spiegava a Rino, suo devoto picciotto, quello che, dal suo risveglio, non faceva altro che rivedere nella mente sua. «Uomini d’onore che urlavano, picciotti che piangevano come disperati…»
Rino teneva gli occhi sgranati.
…«tutti all’inferno stavano.»
«Ma dimmi, cosa vedesti prima di bruciare nelle fiamme» volle sapere il fedelissimo.
«Vidi una luce bianca, come una luminaria che fa mezzogiorno in un pozzo scuro e profondissimo. Una mano grossa e forte mi prese e mi trascinò nel posto che ti raccontai».
«E di chi era stà mano, Don Cicero?»
«Di uno alto e robusto, con barba bianca come neve.»
Un sibilo di meraviglia uscì dalla bocca del devotissimo.
«Fu allora che davanti agli occhi miei si presentarono i più alti papaveri della storia della Cupola. Fui come un Dante trasportato nell’aldilà».
«E a chi vedesti?»
Tony Lo Cicero rabbrividì.
«Se te lo dico, tu ci devi credere» pretese con tono minaccioso.
«Ci credo, ci credo» assicurò l’altro.
«Vidi Al Capone che frignava come un femminella, e che mi diceva “Salvami, salvami!”.
Mi faceva pena, molta pena. Una pena che non ti so dire. E io ebbi paura, una paura che ancora adesso tremo.»
E poi?» volle sapere ancora curioso Rino.
«Luciano, Lucky Luciano.»
«Mammamia!»
«Aveva una faccia proprio brutta, e piangeva, piangeva, lacrime amarissime scendevano dai suoi occhi. E io lo volevo consolare, ma non mi era permesso di avvicinarlo.
Perché la voce dell’uomo con la barba bianca mi disse a un tratto: “Questi che tu vedi sono dannati, e perciò non si salveranno mai”. Così desistetti.»
Rino si fece il segno di croce e recitò qualcosa a bassa voce.
«Poi la mano grossa e forte mi spinse più avanti, dove mi si parò la sagoma di Salvatore Maranzano. Si piegava in terra e si metteva a raccogliere vermi. Se li cacciava in bocca, se li mangiava e poi li vomitava.
E mi dice: “Fui verme. E vermi mangerò per l’eternità. Rammenta, non c’è peggior verme di uno che sa di esserlo.”
Rino ascoltava consumandosi le unghie sotto la ghigliottina dei suoi denti gialli e zigrinati. Aveva fatto la faccia di un morto di paura.
«Ma quello che più mi fece a pezzi fu una cosa assai più terribile» riprese turbato Lo Cicero.
Si passò le mani sulla faccia sudata e continuò:
«In quel luogo lugubre e maligno, ci vidi, qualche passo più avanti, uno il cui volto non mi fu manifestato, perché stava con la faccia al muro e con una scritta sopra la schiena che diceva: “Fui un infame”. Capisci la disgrazia di quel poveraccio?»
«No» confessò Rino.
Quelli spiegò: «La voce di quello con la barba bianca mi disse così: “Vedi quello? Infame due volte, secondo gli uomini e secondo il cielo. Pagò l’infamia del pentitismo con la morte per mano di quelli che al tempo furono uomini suoi, e ora paga l’infamia del suo trascorso con il fuoco della Geenna.»
«Santa Rosalia, che brutto sogno!» esclamò il picciotto.
«Non era un sogno» lo riprese Lo Cicero.
«Tu mi dici che…»
«Un vero e proprio viaggio nell’aldilà. Altro che sogno… L’uomo dalla barba bianca che mi parlò era…» rabbrividì e cominciò a piangere.
Rino sbiancò. «E ora come la mettiamo?»
«Io vado in pensione» rispose prontamente Lo Cicero.
«In pensione?»
«In pensione, si. Niente più sgarri, niente attentati, niente più pizzi e pizzini. Mio fedele Rino, picciotto abile e sempre devoto, da oggi sei libero. Ti affranco da obblighi, impegni e servitù.
Io da oggi mio voglio redimere. Faccio un passo indietro, me ne torno sui passi miei e a vita serena e ritirata. Nel viaggio che feci e che alla vita mi riportò, mi fu mostrato l’orrore delle mie azioni. Basta Mala. Io all’Inferno non ci voglio bruciare.
Nel tempo che mi rimane voglio scontare ciò che di terribile ho compiuto negli anni. Meglio adesso che quando sarà troppo tardi.»
Rino era sconvolto e non credeva a quanto aveva sentito dire.
Tony Lo Cicero s’era ammattito?
Forse.
Anzi era così.
Era irriconoscibile.
Ma che avrebbero detto quelli della Cupola? Cosa avrebbero pensato?
Una cosa così non l’avrebbero fatta passare liscia.
Ecco cosa avrebbero detto :“Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volta indietro è degno di campare”.
Rino ne era sicuro, Lo Cicero avrebbe pagato caro e amaro il suo rinnegamento.
E poiché Rino doveva tutto al suo boss, decise di fare qualcosa per lui.
Qualcosa che gli avrebbe risparmiato il prezzo del disonore e dell’infamia che si addice ai traditori.
Meglio sembrar morto per cause naturali che morire come muoiono gli infami.
Rino fissò i suoi occhi in quelli di Lo Cicero, così pietosamente che l’altro si turbò.
«Che hai, Rino?»
Il picciotto allungò le braccia dure e robuste come rami, gli prese la faccia e gliela affondò nel cuscino. Poi spinse con tutta la forza.
Le braccia e le gambe di Lo Cicero si dibattevano come i tentacoli di un polpo. Poco più di un minuto e il corpo morto del boss si rilassò.
Rino adagiò il cadavere in posizione supina e lasciò tutto come aveva trovato. Gli baciò la fronte e se ne andò.
Tutti credettero che il cuore di Lo Cicero aveva ceduto, e che era morto senza nemmeno accorgersene.
(Fonte foto: web)

Fabio Giampaglia