Napoli, città dei vivi e città dei morti

Quando penso alla mia infanzia è come se vivessi la storia di un’altra persona, lontana da me e raccontata nei minimi dettagli.
Ricordo il giorno dell’estrazione del lotto. Il postiere del banco lotto che segnava i numeri della ruota di Napoli, appena estratti, su una lavagnetta nera fuori al negozio. Io da ragazzino che, comandato da mio zio Giovanni, andavo di corsa a segnare i numeri.
I numeri. Quella particolare alchimia dei numeri ha attraversato la mia infanzia. Qualsiasi cosa dell’esperienza quotidiana era associata ad un numero, in particolare il sogno e in particolare il sogno di persone morte.
Abitavo in una casa dove si diceva c’erano gli spiriti. Era al primo piano di un antico palazzo del settecento, in uno di quei vicoli di Napoli, in uno dei quei vicoli della città senza luce della città del sole.
La città del sole, cantano le canzoni. Ma in quei vicoli del centro il sole fa fatica ad entrare.                                                                                                                     La luce radente del sole rimbalza sulle pareti del vicolo. Per arrivare fino in fondo deve scendere diritta, rasente le pareti di tufo, tenute discoste da fili di ferro, tesi da finestra a finestra che traversano la striscia di cielo azzurro terso. Su quei fili stesi bianchi lenzuoli, catturano come pannelli solari quel poco di sole. Tutto il vicolo illuminato di luce riflessa. Scendono diritti, i raggi del sole, giù per le finestre, sui muri con tracce di intonaci colorati di giallo ocra, rosa pallido, arancione pastello. Cespi di piante di fico nate sul perenne umido di colonne pluviali da semi lasciati dallo sterco di colombi assetati. Gerani, dai colori vivaci, rossi, gialli, arancione forte, in vasi color terracotta esposti sulle inferriate bianche di piccoli balconi. Persiane verdi, spalancate. Esigenza semplice. Bisogno di colore, di luce.
Ore 12.00.
Scendono diritti a quell’ora i raggi del sole, fino ad illuminare i blocchi di pietra usati da secoli per il selciato. Pietra lavica. Pietra tagliata dalle rocce vulcaniche della grande montagna di fuoco che in una sua eruzione, duemila anni fa, seppellì lo sfarzo, la ricchezza, gioie, tormenti, piaceri, credenze e miti di Pompei.                                                                                                                          Ci ritorno oggi in quel vicolo.                                                                                                  Una strana metamorfosi, le mura, i palazzi, i bassi, tutto come era sempre stato, una gran confusione di immagini sovrapposte, su un ordine ben preciso. L’ordine: l’asse longitudinale, la lunga e stretta strada; la confusione: le innumerevoli stratificazioni storiche che si sono succedute nei secoli, dal cinquecento ad oggi. La grande vera metamorfosi che esprime quel vicolo è invece di carattere sociale, l’ambiente vissuto. In quei bassi per secoli aveva vissuto la Napoli popolare, quella descritta dalla poetica di Eduardo. Mentre cammino mi accorgo, invece, che quei luoghi sono ora popolati da extracomunitari: africani, arabi, cinesi trapiantati in questi bui vicoli ricchi di storia e di fascino, da realtà completamente differenti, abbandonando i propri paesi d’origine nella speranza di una vita migliore, sull’onda di questa epopea migratoria che sta caratterizzando l’ingresso di questo nuovo millennio.
Realtà sociali differenti tra loro ed estranee al contesto, che hanno abbandonato il loro mondo nella speranza di trovare una vita migliore, insediate con prepotenza in quella realtà ricca di storia, trasudante di vita vissuta, dove ognuno di quei palazzi, di quei bassi, di quei balconi, di quelle finestre, parla, racconta la propria storia. Un libro di storia scritto con le pietre e mostrato a cielo aperto.
Fermo i miei passi.
Ecco il palazzo dove ho abitato la mia infanzia. Alzo la testa. Un imponente arco di piperno grigio, tenero, ancora pietra vulcanica, ancora il Vesuvio. Abitavo al primo piano di quel palazzo, vedo il balcone, sopra l’arco in piperno che fa da cornice ad un pesantissimo portone in legno, da cui si accede in un grande androne con una volta bianca, a crociera. Quel balcone, il balcone di casa mia.
Mi affacciavo sempre, quando ero ragazzino, la mattina presto. Era uno spettacolo quel vicolo la mattina presto. Era un via vai di studenti, tutti i ragazzi che andavano all’Istituto Tecnico, su al vico dei Principi, alla Conocchia, il “Francesco Giordani”. Preferivano evitare via Arena Sanità, attraversando il vicolo che correva parallelamente alla strada principale ma era senza auto e piena di bassi, dove si vendeva di tutto. Era un centro commerciale anti-litteram. Era.
Mi ricordo le voci dei venditori ambulanti che a quell’ora affollavano il vicolo.
‘O Mario d’a varrecchina, donna Carmela d’o panino cu‘a ricotta (che scendeva dallo Scudillo con la ricotta fresca e la vendeva nei panini caldi avvolti da una foglia di fico). C’era Luigino, ‘o pisciavinolo che veniva dai Vergini e con due secchi di legno dipinti di azzurro vendeva il pescato della nottata (di solito alici, o cefalotti). D’estate passava anche l’omino d’e ceveze, don Franco, che vendeva i fichi freschi appena raccolti ncopp’e scampate. Se ti serviva qualcosa bastava che ti affacciavi, come faceva mia madre, ed eri servito.
Sulla parete a sinistra, entrando nel palazzo, c’è ancora quell’edicola votiva. Un’edicola votiva con una immagine di un santo alato, un angelo, che regge con le mani, da un lato una tromba, dall’altro un libro, sulla sua testa una fiammella che simboleggia lo Spirito Santo. San Vincenzo Ferreri, il protettore del quartiere, ’o munacone. Intorno al santo sette statuine dentro una fiammella. Insieme alle statuine, un cerchio, un rosario e, al centro, decine di piccole fotografie in bianco e nero, uomini, donne, bambini, soldati, ragazzi, vecchi. Li dentro c’è l’albero genealogico di quel palazzo, quello reale e quello immaginario, della fede e della superstizione. Un attaccamento alla vita, una misura del tempo che passa inesorabilmente per tutti, in tutti i tempi. Il varco del sogno, l’ingresso metafisico tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Un universo racchiuso in una piccola calotta emisferica, scavata nei blocchi di tufo, decorata come una cappella in miniatura, con i segni dei decenni, dei secoli, ancora adesso curata, illuminata e colorata, da qualcuno. Ma da chi, non si sa.
Mi fermo per un momento a guardare, nella penombra dell’androne, quell’affascinante, piccolo monumento alla memoria e all’immaginazione. Non è illuminata da una fonte specifica, vive di luce propria, come se partisse dalla fiammella dipinta in testa al santo e si irradiasse in tutta l’edicola per poi espandersi all’esterno nell’androne del palazzo.
Quel luogo ha un carattere di sacralità, come se risiedesse Dio in persona.

Mario Scippa

 (tratto da : Mario Scippa, “L’antiquario e il professore”)