Cum finis: Cutis Parthenope, mostra fotografica di Massimo Buonaiuto

Il salotto Antichità Scippa arte&cultura” di Napoli in via Vannella Gaetani, presenta il 13 Giugno alle ore 18.30, “Cutis  Parthenope”, mostra fotografica di Massimo Buonaiuto.
 Le mostre personali della rassegna Cum Finis, sono partite con le fotografie di Malja Brando, Opus Reticulatum, l’opera reticolare, evocando, simbolicamente, il tracciato reticolare che caratterizza da un lato l’antico muro romano, e dall’altro il tracciato ortogonale della città, elementi simbolici, ordinatori, su cui è fondata la nostra città, Napoli.
I muri di una città sono il segno più evidente del mutamento urbano e sociale. Grazie al loro incessante costruirsi, ricostruirsi e modificarsi sono testimoni privilegiati, prima di ogni altra cosa, dell’aspetto sociale di una città.
I muri sono ciò che costituiscono la Pelle della città. Quel confine per eccellenza, ambivalente, tra ciò che contiene e ciò che è fuori.
In architettura e in urbanistica il termine “pelle” per definire questo confine, oggi è molto in voga, ma ha radici linguistiche antiche. Ne parlano Vitruvio (II – 8) e ancor più l’Alberti (VI – 9), ma ne parlano essenzialmente come ornamento delle murature.
La “pelle” vitruviana e albertiana erano un rivestimento per materiali vili, come lo sono, a parte la funzione protettiva e regolativa, la pelle per i tessuti muscolari o l’abito per il corpo nudo. Quel  rivestimento più esterno di un corpo che protegge i tessuti sottostanti, che può avere varia colorazione,  ed è una struttura che può andare incontro anche a processi d’invecchiamento più o meno visibili. La “pelle” vitruviana e albertiana è quel  mediatore tra l’organismo e il mondo esterno, che ha diverse funzioni, prima tra tutte quella di proteggere, costituendo la prima linea di difesa dell’organismo contro le aggressioni esterne.
Costituisce anche una barriera asciutta e relativamente impermeabile contro la perdita di liquidi. E’ anche un mezzo tecnico  per far fronte a diverse esigenze, come per esempio quella per la regolazione della temperatura.
La  pelle della città, come la pelle di un corpo, può contenere un carattere ambiguo. Come ambigua è Cutis Pathenope, la pelle di Napoli nelle fotografie di Massimo Buonaiuto.
La pelle di Partnenope da un lato è una morbida, calda, che avvolge e protegge l’intera città vista da uno dei suoi punti più alti, dalla collina del Vomero, dalla Pedamentina, che sembra essere uniforme sugli edifici e sulla natura, fino al Vesuvio che sullo sfondo, come una escrescenza naturale su un corpo, sembra naturalmente tenderla. Dall’altro lato, come nel corpo della sirena, mostra la sua natura ibrida, la pelle squamata della periferia Est, dove i muri sono di acciaio e di vetro, in contrasto con il tufo, l’elemento naturale con cui è caratterizzato il muro di Napoli.
Questo è ciò che appare scontato parlando della pelle di una città, ma all’inizio di questa rassegna è stato detto che la fotografia, come la poesia, è uno strumento che ci permette di andare oltre i confini del sensibile, oltre  ciò che appare scontato.
E abbiamo anche detto che la pelle di una città è ambigua. L’ambiguità della “pelle” sta tutta nella funzione del ricoprire che, secondo i casi, può rivelare meglio o dissimulare la natura della cosa nascosta. In  queste foto la vera pelle rappresentata dal fotografo non sono i muri, come potrebbe essere scontato che sia, ma la pelle della sirena Partenope: il fotografo l’ha individuata nel cielo.
Il cielo sulla città, che copre, riveste, protegge, amalgama le diversità e i contrasti, le similitudini, le asprezze, le delicatezze, culla gli amori  i desideri, quel cielo che si apre in alcuni punti della città ed è frammenti o sottili strisce di azzurro strette e lunghe, che si possono osservare solo a testa completamente alzata con il naso per aria; se si è fisicamente nel corpo, nel ventre della città, nei suoi vicoli.
Il cielo: quanto è bella questa parola, bisogna ripeterla nella mente per sentire come suona bene: ci da tutta l’idea della morbidezza della elasticità della materia che la compone, la morbidezza e l’elasticità della pelle di Napoli.
Buonaiuto ci fa gustare un lembo quadrato di questa pelle, dall’interno del cortile di uno dei più bei palazzi napoletani, il palazzo dello Spagnuolo ai Vergini, nel quartiere Sanità. Una sua particolare visione di quella delicata superficie di confine tra ciò che è fuori e ciò che è dentro la città.
Il cielo come la pelle, così come l’ha descritta un grande negli anni 50′, Curzio Malaparte, ne “La Pelle” : «È una vergogna che ci sia al mondo un cielo simile. È una vergogna che il cielo, in certi momenti, sia com’era il cielo in quel giorno, in quel momento. Ciò che mi faceva correre per la schiena un brivido di paura e di schifo, non erano quei piccoli schiavi appoggiati al muro della Cappella Vecchia, né quelle donne dal viso scarno vizzo incrostato di belletto, né quei soldati marocchini dai neri occhi scintillanti, dalle lunghe dita ossute: ma il cielo, quel cielo azzurro e limpido sui tetti, sulle macerie delle case, sugli alberi verdi gonfi di uccelli. Era quell’alto cielo di seta cruda, di un azzurro freddo e lucido, dove il mare metteva un remoto e vago bagliore verde. Quel cielo delicato e crudele che sulla collina di Posillipo dolcemente incurvandosi si faceva rosso e tenero come la pelle di un bambino».
La settimana scorsa, a Pozzuoli, si è parlato del territorio Flegreo partendo da un sepolcro,dal sepolcro di un mito, quello di Miseno, il trombettiere di Enea. Anche qui a Napoli abbiamo un sepolcro in mezzo al mare, lo scoglio di Megaride, dove c’è il castel del’Ovo. Sì, forse non tutti sanno che anche quello è un sepolcro di un mito, anzi di due miti: il primo, pagano, quello della sirena Partenope; il secondo fa riferimento alla religione cristiana, che a Napoli diventa mito, quello di Santa Patrizia, di Costantinopoli, come Partenope, era una vergine; fece voto di castità e, per mantenerlo, dovette fuggire dalla città perché l’imperatore Costante (VII secolo) le voleva imporre il matrimonio. Fuggì in pellegrinaggio verso la Terra Santa, ma una terribile tempesta la fece naufragare sulle coste di Napoli e più precisamente sull’isoletta di Megaride, dove morì.
Un mito del bene assoluto che, insieme a san Gennaro, è patrona della città, e con il culto di san Gennaro ha in comune lo scioglimento del sangue.
La sirena Parthenope, diversamente da come è vista nell’immaginario collettivo,  è un ibrido tra una donna e un uccello, non ha nulla della bella donna-pesce, nuda, con i capelli biondi che riescono appena a coprirle il seno. Un ibrido, come  la città di Napoli era  per metà osca e per metà greca.
Le Sirene ammaliavano con il loro richiamo seducente i naviganti di passaggio che, soggiogati dal loro canto, perdevano il controllo delle imbarcazioni, andandosi a schiantare sugli scogli. Parthenope non vi riuscì con Ulisse e per la disperazione si suicidò buttandosi in mare. Il corpo della sirena fu portato dalle correnti marine tra gli scogli di Megaride (dove poi sorse  Castel dell’Ovo), e lì gli abitanti trovarono la dea, con gli occhi chiusi nel bianco del viso e i lunghi capelli che ondeggiavano nell’acqua. Venne posta in un grandioso sepolcro, diede nome al villaggio di pescatori e divenne la protettrice del luogo, venerata dal popolo e onorata con sacrifici e fiaccolate sul mare.
Il luogo dove Napoli ha origine è un sepolcro e contiene due miti contrastanti: il bene e il male. La sirena e la Santa.

Mario Scippa