Serie A: un torneo al totale declassamento

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Il calcio italiano declassato dagli scandali (foto: web)

Chi gode di buona memoria o di grande esperienza non potrà certamente obiettare: cos’era il calcio italiano negli anni ’80? Qual’era l’immagine che dava all’Europa calcistica e a tutto il mondo?
Comincia da qui, dai ricordi, il viaggio alla scoperta del declassamento qualitativo del campionato di Serie A. Una caduta terribile iniziata a metà anni ’90 per continuare l’indomabile discesa fino ai giorni nostri.
A cavallo tra gli anni ’70 e ’80, il calcio viveva il suo momento di totale splendore; non esistevano società calcistiche, quindi società per azioni, ma semplici club, associazioni sportive, gestite da ingegneri e avvocati con proventi derivati dagli stadi e da qualche sponsor per uso immagine di alcuni campioni. Le tv restavano al palo e trasmettevano solo highlights delle gare di cartello per poi rifarsi solo in occasioni di manifestazioni continentali o mondiali e solo attraverso i canali in chiaro. Le radio trasmettevano i primi esempi di tutto il calcio minuto per minuto e gli spalti dei vari impianti sportivi si mostravano gremiti talvolta anche oltre il numero disponibile. Quello era il calcio dei campioni venuti in Italia per cimentarsi nel torneo più bello e difficile. Non era cosa da tutti godere delle giocate di Falcao, Maradona, Platini, Rumenigge e Zico.
Un calcio bello e vincente, l’immagine giusta da mettere a confronto con altri paesi tant’è che le statistiche confermano come le compagini italiane, nelle competizioni europee, non abbiano mai sfigurato nonostante la spietata concorrenza del grande Ajax dal “calcio totale” o della supremazia inglese. Anni diventati indimenticabili anche grazie al Mundial ’82, vittoria simbolo per un calcio fatto di qualità, quantità, cuore e orgoglio.
Nel tempo, però, le cose sono cambiate repentinamente creando un abisso infinito che ha trasformato sensibilmente il mondo dello sport. In Inghilterra arrivano i primi investimenti privati e in Italia si fa lo stesso tanto che nel 1994, per volere dell’allora Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, nonché già Presidente e proprietario del Milan, i club furono trasformati in Società per Azioni ossia aziende che fornivano un prodotto e per tanto soggette a tassazioni e fatturati. Quella metamorfosi portò un incredibile ingresso di capitali nel calcio, proventi derivanti dai diritti d’immagine al copyright passando per la vendita televisiva delle immagini Live, il settore più pagato nel mondo della comunicazione. Arriva il tempo delle “vacche grasse” con un aumento del 200% di ingaggi, merchandising e pubblicità caratterizzate anche dalla nuova era tracciata nel 1996 con la “Legge Bosman” che salutò definitivamente le “Liste” per lasciar spazio ai “Cartellini” con contratti a tempo determinato e procuratori a tutela dell’atleta. Tutto questo a discapito degli stadi già ampiamente compromessi dallo scialbo di Italia ’90 e gli appalti per il ferro che ne hanno ulteriormente indebolito le strutture.
Tutto bello per la maggior parte delle società e i loro imprenditori, fino ai primi anni 2000 quando molteplici società iniziarono a subire i primi dissesti finanziari culminati con fallimenti sportivi ed economici lasciando sempre più spazio a discorsi su curatele fallimentari, cessioni, ipoteche ed emendamenti Covisoc. Un calcio che iniziò a morire lentamente portando l’Italia sempre più in fondo agl’indici di gradimento.
L’Europa cercò di fronteggiare la situazione puntando su investimenti di terze parti per strutture e progetti a lungo termine mentre l’Italia resta al palo tra burocrazie e interessi. In Germania, ad esempio, iniziano i programmi per la privatizzazione degli stadi a favore dei club o privati, forti investimenti verso il settore giovanile e campagne di educazione sportiva e sociale direttamente nelle scuole perché creare costa molto meno di comprare.
In Italia, invece, nasce la classica ciambella di salvataggio ossia quella sudditanza psicologica, o cultura del sospetto, che riempie media e bar dello sport nascondendo i veri problemi di un calcio statico e ormai obsoleto. Una piaga che ha caratterizzato la fuga dei campioni, nostrani e stranieri, verso tornei più produttivi sia in chiave economica che di immagine, lasciando un campionato che gira il mondo con l’etichetta degli scandali, dei veleni, e delle truffe.
Un declassamento visibile grazie ad “innovazioni” che assomigliano molto più ad un effetto placebo che alla vera voglia di ripulire un mondo in piena overdose di business.
L’inserimento dei due arbitri di porta tanto sbandiera l’estate scorsa, ad esempio, ha elevato la quantità di errori commessi del 60% nel giro di un solo anno compromettendo ulteriormente ciò che restava in termini di credibilità dopo “Calciopoli”, “Passaportopoli” e Calcioscommesse. Mentre l’Europa continua a viaggiare superando, seppur a fatica, i vari ostacoli della crisi, l’Italia resta impantanata nei propri pregiudizi e in quella lenta burocrazia che non permette reali cambiamenti trasformando il calcio più bello e difficile del mondo nel quarto calcio d’Europa dietro Spagna, Inghilterra e Germania.