Sacro GRA


Il Grande Raccordo Anulare è il più grande raccordo autostradale d’Italia: si snoda per quasi 70 km attorno Roma.
Qui vengono illustrate delle esistenze di gente che vi vivono attorno. Tre sono le parole d’ordine con cui il regista Gianfranco Rosi ha dichiarato di avere  affrontato la messa in pellicola di un “girato” di circa 200 ore: “sottrazione, trasformazione e struttura”.
Sono esistenze con cui ha saputo entrare in contatto, investigando in questa struttura metafisica che è il GRA. Una strada che attraversa il niente, sospesa com’è tra residue tracce di natura, scompaginati agglomerati umani: in cui vivono tracce di esistenze che fanno proprio in un ritmo poetico-esistenziale l’adeguarsi a questo percorso d’ingresso alla metropoli .
Il film (ITA-FRA,13) è nato da un’idea di ricerca etno-antropologica di Nicolò Bassetti, il paesaggista-urbanista: ma Rosi ha continuato da solo per più di due anni.
Dare ordine a questa marea montante di sensazioni, di emozioni condivise, era difficilissimo, senza farsene travolgere. Ecco quindi il miracolo di come ha saputo, per “sottrazione”, individuare quei grumi consolidati di umanità che potessero più autonomamente, chiaramente, profondamente, esprimere quel ritmo esistenziale che caratterizza loro stessi in quell’ambiente.
C’è l’ultimo anguillaro del fiume Tevere, che vive in simbiosi quasi hemingwayana il suo rapporto con la natura: lo fa in modo virile, quasi rude, ma dolcemente e dignitosamente partecipativo.
C’è il palmologo che rileva angosciato e impotente il dilagare famelico e distruttivo dei parassiti nelle sue amate palme, la cui figura è per lui  metafora dell’anima.
Il nobile che vive tra i sogni e kitsch; un attore felliniano di fotoromanzi che osserva il passare del tempo; un portantino del 118 che partecipa in modo umano alle sofferenze che incontra nel lavoro, e nei suoi rapporti affettuosi con la madre svanita.
L’altro nobile decaduto che osserva con ironia lo svolgersi del mondo dalle finestre del caseggiato di estrema periferia, temporaneo alloggio, con linguaggio forbito e comunicativo con la figlia sempre al computer.
Sono mondi che sono attraversati da quella fitta linea serpentina che è il raccordo: una specie di “non esserci” di umanità casuale, che partecipa, come dei satelliti distaccati, ad una vita che si presenta misteriosamente “esistente” , in una dimensione di “nulla”: né città, né (più solo) campagna.
In questo senso è una riuscita dimensione poetica di un Calvino delle “Città Invisibili”. Un’opera delicata, struggente, ma ricca di umanità e di speranza. Tra l’altro ha dimostrato come, vincendo a Venezia 13 il Leone d’Oro, le qualità linguistiche del “cinema di realtà”, siano parti integranti della moderna sintassi del cinema.

Francesco “Ciccio” Capozzi