Romantico, ovvero l’arte della felicità

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NAPOLI – “Romantico” è solo il primo degli aggettivi che salta alla mente per descrivere “L’arte della felicità”, il lungometraggio animato diretto da Alessandro Rak, fumettista napoletano.
“Romantico”, spogliato da tutta la banalità che si potrebbe attribuire a questo termine, acquisendone solo il significato più intimo. Una storia d’amore, certo, ma per quel sentimento che è la felicità.
Un viaggio tra il pessimismo della ragione e l’ottimismo dello spirito romantico, che si sviluppa all’interno dei discorsi –e dei monologhi, a tratti folli- sui sedili del taxi di Sergio, protagonista del film: ex pianista, ha iniziato a guidare il taxi appartenuto allo zio quando l’altro componente del duo, suo fratello Alfredo, violinista, decide di abbandonare tutto e partire per l’India.
È proprio nella Mercedes bianca che si fa irruzione nella vita del protagonista, che con il pretesto di una trasmissione radiofonica intitolata “L’arte della felicità” e delle chiacchiere con i clienti, porta a varie e importanti riflessioni.
Un film ricco di concetti metafisici, che strizza l’occhio a quello della metempsicosi e di un generale animismo che il regista, forse banalmente -ma in modo efficace- fa aleggiare sulla città sottoforma di gabbiano. Immancabile un esplicito riferimento all’eterno ritorno Nietzschiano.
La vita, la morte, l’inizio, la fine, sono tutti lì: sul sedile del taxi bianco di Sergio. Un taxi che diventa la sua casa, in cui dorme, in cui si sente sicuro nella razionale e depressa rassegnazione.
Il pubblico diventa voyeur, spia il suo intimissimo cammino, l’osserva durante la sua fine, trasformazione e rinascita. Sergio viene scosso da un incontro e da un lutto, vuole imparare ad essere felice, vuole farlo sotto quella pioggia battente in una Napoli mai asciutta, mai serena. Conosce chi c’è riuscito e chi sa che non ci riuscirà mai. Tutti, a modo loro, riescono ad arricchire il protagonista e lo spettatore.
Un film accattivante, che commuove e riesce a far sorridere, che si fa perdonare per la lentezza di alcune scene e per l’imperfezione del doppiaggio.
Una colonna sonora eccelsa che, ancora una volta complice l’immancabile radiolina, è assente solo in rare occasioni, aiutando a contribuire alla sensazione dello spettatore di trovarsi per davvero sul sedile posteriore di quel taxi bianco che puzza di fumo.
Da non perdere assolutamente, con l’unico rischio di farsi troppe aspettative sul cinema italiano, soprattutto in prospettiva del Natale.

Maurizio Iengo