Obey, the street artist

ObeyNAPOLI – Shepard Fairey, meglio noto come Obey, classe 1970, street artist contemporaneo statunitense, ha iniziato la sua carriera disseminando stickers che ritraevano l’iconografia di Andrè The Giant (Il Gigante), celebre wrestler francese reso una celebrità dalla sua straordinaria quanto discussa altezza (fu presentato all’inizio della sua carriera con un’altezza di circa poco più di 213 cm, che venne in seguito riconsiderata) in giro per la sua città d’origine della Carolina del Sud.

Ma il progetto per il quale Fairey ha raggiunto la sua attuale fama è stata la gigantografia che ritraeva il volto del democratico Barack Obama nel pieno della sua campagna elettorale, facendosi promotore della sua candidatura. Sembra che Obama gli abbia reso grazie direttamente con una telefonata, rivelandosi gratificato da tale omaggio e approvazione.

In seguito ha realizzato alcuni poster che riportano gli slogan “Hope” e “Change” quasi a ribadire il suo totale supporto all’ascesa alla Casa Bianca del futuro presidente americano.

Dal 6 dicembre e fino al 28 Febbraio 2015, il Pan di Napoli presenta una vasta esposizione delle sue opere, che derivano quasi interamente da collezioni di privati italiani e alcuni intenazionali. Shepard Fairey ha infatti realizzato alcuni progetti in Italia, soprattutto a Verona, a Roma e a Venezia.

Ciò che si evince dalle sue realizzazioni – molti i poster trasferiti su tela – è il complesso rapporto che l’autore intesse con il potere mediatico. I soggetti che Fairey sembra prediligere riguardano, nella stragrande maggioranza, ritratti umani di importanti leader politici del passato (come Lenin o Nixon) e del presente (come Obama) ma è anche percepibile il vistoso interesse nei confronti dell’universo musicale e dell’ambito sportivo.

Si può rilevare da alcuni simboli prescelti – come l’onnipresente logo “Obey” dalla cui notorietà ha tratto il suo nome e la vecchia macchina da stampa  – l’attenzione particolare nei confronti di ciò che si pone come promotore di grandi cambiamenti in grado di innescare meccanismi di trasformazione su più livelli.

Non è facile dire se per alcuni casi si tratta di critica sociale o di pura raffigurazione di fenomeni proupulsori di dinamiche socio-culturali, ma quello che visivamente si pone di fronte all’osservatore è la ricorrenza di certi simboli manipolatori, in senso lato, che abbiano influenza sulla capacità di riflessione dell’individuo, in genere sottoposto meccanicamente alla ricezione dell’immagine.

Sembra si operi da parte dell’autore, in questo senso, una riflessione sul grado di intesità più o meno esercitato da un simbolo e da un’immagine. Come il volto di Obama traduce visivamente l’idea del cambiamento culturale, così le rose che spuntano dal kalashnikov richiamano, un po’ per antitesi, l’idea della necessità della tregua e dell’abominio della violenza. Mentre zio Sam che abbraccia dei teschi sotto i quali troneggia la scritta “Do he says” (Fa come dice lui) allude all’ambiguità sul libero arbitrio ed il presunto pacifismo, valori fondatori dell’ideologia americana.

In una parossistica sequenza, le tele che si susseguono, impregnate dalla curiosità sofferta nei confronti della guerra in Iraq e costellate di volti di giovani donne orientali e mandala indiani, costeggiano, con la loro carica espressiva intrisa di violenti contrasti e pesanti cromature, le due sale del Palazzo delle Arti, adibite ad ospitare l’inedita esposizione.

La mostra, curata dal critico Massimo Sgroi, è stata promossa ed organizzata dall’associazione “Password onlus”, presieduta da Luca Giglio, in collaborazione con l’assessorato comunale alla Cultura ed il Consolato generale degli Stati Uniti a Napoli.

All’inaugurazione hanno partecipato il sindaco Luigi de Magistris, il console generale americano Colombia Barrosse e l’assessore alla Cultura Nino Daniele.

Francesca Mancini