Morte alla processione del Santo

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Il rombo sordo e concentrato vicino a lei era come un ruggito che sembrava avvolgerla da ogni parte, e poi buio …
Maria Vela, ma tutti la chiamavano Marinella, si svegliò di soprassalto. Era un incubo, si rese conto: l’aveva sognato. Ma le aveva lasciato una sensazione fredda di panico: ma anche di ineluttabilità.
Decise di non pensarci più: se tutte le volte che aveva fatto brutti sogni, si fosse fatta condizionare, non sarebbe campata fino a quel momento; oppure, e per lei, per il suo carattere la cosa peggiore, si sarebbe condannata all’immobilità.
E il suo Male (una forma di anemia emolitica), lei così lo chiamava nei dialoghi con se stessa, avrebbe vinto su di lei senza combattere: e che sfizio c’era?
Se tutte le volte che doveva fare prelievi, che per lei erano sempre dolorosi, o iniziare un nuovo ciclo di terapia, si fosse fermata per un incubo, il che capitava spesso, sarebbe voluto dire che era la paura a governare “la navicella” del suo io: questo era inaccettabile.
Erano le 6 e 40: esattamente 14 ore prima  della sua uscita dal mondo. Non lo sapeva, ma questa sarebbe stata la sua ultima alba: e l’alba era il momento della giornata che più amava.
E poi lei stessa sorrise, quando le si affacciò il pensiero: era la Festa del Santo Patrono di Portici, San Ciro, cui era sinceramente, gioiosamente devota.
O meglio: la Festa del Patrono era il 31 gennaio, ma l’uscita della sua effigie, in solenne processione, molto partecipata, avveniva la prima domenica di maggio.
Anzi, ora che la Chiesa di San Ciro era “salita” a Santuario Diocesano, grazie a un Parroco Arciprete, particolarmente attivo ed efficace, il sentimento di religiosità popolare che lo circondava era diventato ancora più intenso e quantitativamente rilevante. E lei ne era sinceramente felice.
Era la Presenza Spirituale che più l’aveva accompagnata in tutti questi periodi in cui aveva lottato contro il suo Male: cui si era affidata, e che nell’intenso silenzio del suo cuore le aveva suggerito come comportarsi in frangenti spinosi, cui l’aveva portata l’irruenza del suo carattere, ma anche la sincerità con cui “sentiva” , per lo più ancora soffrendone, nonostante l’età ormai matura, la mediocrità e l’ipocrisia che la circondava.
Cui non sapeva abbozzare, anche quando si trattava di parenti o di persone prossime. In questo, lo sapeva, era temuta, e spesso avvertiva che, talvolta quando si avvicinava ad un capannello c’era il gelo: ma a lei non importava. Però avvertiva che era rispettata, se non temuta.
Quando insegnava al Liceo Scientifico di Portici – ora che era in pensione se ne ricordava con affetto – avvertiva dalla sua classe questa “doppia onda”: da una parte la simpatia e il rispetto, dall’altra intuiva nei comportamenti dei discenti delle tracce dei condizionamenti alla mediocrità, da parte dei loro genitori, che la mettevano in situazione di conflittualità.
Era stata oggetto di attacchi: ma ne era sempre uscita vincente, perché rispettava le forme. Soprattutto non si lasciava intimidire. Però ricordava per lo più con affetto quegli anni passati tra i banchi.
Non è che le mancasse il lavoro, che, specie negli ultimi tempi, era diventato troppo faticoso, anche se lei non l’avrebbe mai ammesso: ma persisteva quell’ alone di affetto nel mentre ricordava quegli anni, quelle situazioni, quelle facce che punteggiavano come delle lucciole nel buio d’estate quei momenti della sua memoria dedicati al suo passato.
Lei cercava sempre di non lasciare andare del tutto le sue memorie personali: come aveva letto nella grande scrittrice Marguerite Yourcenar; esse andavano coltivate e riannodate, per riportare alla luce della consapevolezza gli affetti e le speranze, e di come queste si erano confermate nella sua anima profonda. E ciò andava fatto sempre.
A qualsiasi età. Non esistevano limiti che potessero impedire quest’esercizio, che in lei era sempre congiunto alla preghiera.
Era come se il tempo fosse tutto presente all’oggi: lei non amava rifugiarsi nel passato; era portata a guardare avanti, come se la malattia potesse invecchiare insieme a lei, come un ospite indesiderato, ma da cui era impossibile allontanarsi.
Non la temeva: non aveva paura della morte. Sapeva che era presso di lei: conviveva in ogni respiro. Ma la conosceva. La guardava fisso negli occhi ad ogni risveglio. Ciò che le dava angoscia era lasciare solo suo marito, malato, e che aveva bisogno della sua energia; i figli.
Proprio per questo non aveva paura di nessuno e di niente: la chiamavano la leonessa, a dispetto dei suoi limiti, della sua malattia: anzi, con lo sconcerto di più di un amico, ne sapeva anche ridere, spesso usando un linguaggio che definire variopinto era gentile .
Ma non era superficialità, o, peggio, una forma sottile di narcisismo. Aveva deciso che quello di guardare in faccia al suo destino – questo non lo diceva ad alta voce, per non mettersi aridere lei per prima – era il modo migliore per combatterlo.
Su questa lunghezza d’onda con la vita, si sentiva capace di grandi slanci di generosità: se vedeva persone, fossero esse alunni o colleghi, o persone anche fuori della sua cerchia familiare, che erano in difficoltà per fragilità, torti subiti, sapeva come farsene carico. In maniera che sembrava casuale, come se “capitasse” quasi per caso.
Oggi si sentiva felice: si, felice. Era una bella giornata e aspettava molti parenti per la Processione: passava proprio sotto il suo balcone ed era uno spettacolo che la riempiva di allegria.
Già il pensare ad organizzare il rinfresco e l’accoglienza la colmava d’energia. E per tutta la giornata era stato un continuo di telefonate e di attività. Era una domenica diversa dalle altre, e lei non vedeva l’ora che passasse  la Processione.
Il tempo passava e l’ora si avvicinava.
Alle 20,40 di domenica 3 maggio 2013, il balcone dell’appartamento di Maria Vela, a Portici, al Corso Garibaldi crolla, mentre la processione del Santo Patrono è a 50 metri.
Perdono la vita Maria, 68 anni, Aniello Scognamiglio, 65 anni, parente di Maria, Concetta Evangelista, 65, passante che perisce sotto le macerie.
(Foto: web)

Francesco “Ciccio”Capozzi