L’intervista: Giovanni Mazzitelli, sceneggiatore di Vitriol

Quando arriva all’appuntamento, Giovanni Mazzitelli (foto), lo sceneggiatore porticese di Vitriol, il film italiano uscito nelle sale lo scorso 15 novembre, ha tutta l’aria di un sognatore distratto. Mentre si infila tra le labbra una sigaretta, si ricorda improvvisamente di aver dimenticato l’accendino e lo chiede al cameriere che intanto gli porta il suo caffè. Lo sorseggia lentamente ed è pronto ad iniziare l’intervista.
È un buon inizio: la bravura di un artista è direttamente proporzionale alla distrazione e al suo grado di entropia ovvero un certo disordine che ha in sé come diceva Nietzsche: «Bisogna avere in sé il caos per partorire una stella che danzi».
Dopo la prima del film, qual è stato il riscontro del pubblico e della critica?                                                                                                                      
«Personalmente mi  ritengo soddisfatto, ma credo lo sia anche lo staff e la produzione a fronte del prodotto che alla fine siamo riusciti a realizzare, grazie a tutti i nostri sforzi e soprattutto alla passione che vi abbiamo profuso.
Credo che ci si debba ritenere soddisfatti anche in considerazione del fatto che il film è stato distribuito in  un periodo che viene definito ”estate del cinema”.
Settembre – ottobre – novembre e dicembre sono, infatti, i quattro mesi più importanti per la distribuzione cinematografica a livello italiano, quindi abbiamo dovuto fare i conti con dei colossi della distribuzione e con dei film che avevano molte più chances rispetto al nostro.
I risultati sono stati importanti dal mio punto di vista e da quello dei miei colleghi. Per quanto riguarda la critica, si dice che quando un film la spacca in due, è un buon film. In questo caso Vitriol ha svolto esattamente questo ruolo, dividendo in due i critici: da un lato quelli che hanno mostrato delle riserve perché più attenti ad un cinema d’autore e a film d’essai, dall’altro quelli che hanno capito la finalità del progetto volto ad un cinema più giovane, più fresco, con un linguaggio dalle tendenze non nostrane».
Quali sono stati i momenti difficili durante la lavorazione?            
«Ce ne sono stati troppi, forse, come troppi alle volte ce ne sono alla base di progetti come questi.
Il più difficile dal mio punto di vista è stato quello di dover sintetizzare tutte le necessità artistiche e storiche che mi venivano richieste dalla produzione.
Dovevo inserire tanto materiale, tematiche complesse in un mockumentary,  la cui tempistica non deve essere molto lunga per evitare che venga meno l’interesse dello spettatore.
Ci sono state diverse difficoltà come quando il direttore della fotografia ha distrutto la camera e abbiamo dovuto mettere in gioco un’altra camera, ma fortunatamente non si tratta di macchine costosissime.
La camera si è rotta quando il Napoli ha vinto la Coppa Italia.
Ma la forza di questo progetto è stata proprio quella di usare il problem solving, come dicono gli inglesi, cioè di poter gestire in pochissimo tempo un problema e risolverlo».
Suspense, fiato sospeso. La scena della seduta spiritica. Molta familiarità con il genere horror. Pensi di confrontarti con questo genere in futuro?
«In realtà l’ho già fatto. Nel mio secondo corto, J, datato 2008,  ho realizzato insieme a cinque persone un progetto interessante. Abbiamo lavorato sulla messa in scena soggettiva di quello che era un thriller-horror.
All’inizio il corto presenta delle connotazioni più da horror, poi si sviluppa come un thriller psicologico. L’interesse verso un determinato genere fa parte di una fase evolutiva ben precisa.
Io ho attraversato fino ad ora tre fasi di filtro ed attualmente ne vivo una di forte transizione in cui ho tanto da raccontare. In Italia le possibilità per realizzare questo genere sono due: o un B-movie, sulla falsariga dei Manetti Bros, oppure acquisire un tale livello di potere mediatico e di forza in questo settore da essere in grado di portare a termine un progetto di valore.
In questo momento non sono interessato a ritornare su questi temi, però ciò non toglie che mi piacerebbe occuparmi dell’alienazione psicologica, figlia della mia epoca e della mia educazione, avvicinandomi non all’horror, ma piuttosto all’introspezione psicologica, in particolare dei giovani tra i 25 e i 40 anni.
In Vitriol molti hanno notato delle analogie con il cinema horror. In questo senso posso dire che film come Rec, Cloverfield, Apollo 18, il Mistero di Lovecraft, Paranormal Activity hanno scavato il fondo del barile di un linguaggio sperimentale, servendosi anche di scarsi mezzi come l’espediente della camera di sorveglianza.
Noi non ci siamo allontanati da questo tipo di innovazione e anzi abbiamo voluto inserire all’interno del film tre diversi linguaggi: soggettivo, finta ricostruzione filmica e riproduzione amatoriale” che collocano il film nell’ambito dell’iperrealismo».
Quali registi ti ispirano maggiormente?                                                   
«Sono affascinato da alcuni registi molto giovani, come Aronofsky, Nolan, Verbinski, ma per quanto riguarda i maestri cito Woody Allen (tutta la filmografia) e Nanni Moretti che ha avuto un ascendente particolare su di me nell’arco di età compreso tra i 18 e i 20 anni.
Mi riferisco a mostri sacri che hanno creato un genere dietro il loro personaggio. Le influenze di Nolan, e di tutta la sperimentazione successiva alla Nouvelle Vague (Godard, Truffaut) mi hanno fortemente influenzato dal punto di vista linguistico».
Esperienze anche da regista. Cosa sceglieresti di essere?        
«Dipende dalle circostanze. Scrivendo tanto metto in scena quello di cui ho bisogno, in un determinato momento, filtrando le mie esperienze e ciò che ho da dire.
Quando scrivo delle sceneggiature, su richiesta, si tratta di un’esperienza ricca, soprattutto nel caso di Vitriol dove si parla un linguaggio che proviene da storie cinematografiche diverse dalle mie.
Non c’è una vera e propria scelta, è normale che se si ha il privilegio di essere produttori, scrivere e dirigere costituisce l’obiettivo; per ora credo che l’unica cosa più importante sia gestire con grande maturità il fermento che Napoli offre.
Al tempo stesso  regista e  sceneggiatore: sei la prima persona che pensa e l’ultima che decide, ed il percorso è più completo perché alcune volte scrivendo una sceneggiatura su richiesta, il produttore ed il regista possono alterare radicalmente il progetto iniziale.
Una sceneggiatura, parafrasando Woody Allen, è bella nel momento in cui viene riposta nel cassetto.Quando scrivi per qualcun’altro, per necessità di produzione, ti si chiede di rispettare dei punti, di rientrare in certi schemi, di tener presente la direzione, il filo della storia.
All’inizio ti chiedi perché farlo, ma alla fine ci fai l’abitudine. Il difficile sta nel momento di transizione, quando ancora ti senti ancora ingabbiato in questi punti».
Com’è essere giovane sceneggiatore a Napoli?                                                       
«Il problema non è essere sceneggiatori a Napoli ma in Italia, poiché ci hanno insegnato ad odiare la categoria degli autori, per la tutela dei quali è stato istituito, a Roma, il movimento dei “Centautori”, una sorta di sindacato per gli sceneggiatori.
Ed è importante, perché nel nostro Paese è una figura che è sempre stata accompagnata dalla figura dello sceneggiatore-regista, per cui fare esclusivamente sceneggiature in Italia è molto raro, anche se abbiamo dei bellissimi esempi come Bruni, Di Gregorio, Brizzi, ma in questo caso si tratta di sceneggiatori poi diventati registi.
Una vera e propria casta degli sceneggiatori in Italia è quella legata alla televisione più che al cinema. Il problema di fare lo sceneggiatore in particolare a Napoli, poi,  è un problema legato al film-maker in generale, che si occupi di regia, di montaggio o di sceneggiatura.
In questa città c’è una grande fermento artistico che però non è regolato, per la mancanza di una struttura che riesca a mettere insieme quelle che sono le grandi sinergie creative.
Alcune persone dicono che c’è bisogno di allontanarsi da Napoli ma per me è importante far crescere il proprio territorio. Il problema è che è stato creato un polo cinematografico che è Cinecittà a Roma ed è lì che si trovano tutte le maestranze.
Le difficoltà a Napoli sono quadruplicate, rispetto a Roma, Milano, Torino. Napoli è una città estremamente artistica ma alcuni autori,sono emigrati per necessità. Credo che alla mia età, però, sia necessario cercare dei frutti partendo dal proprio territorio, e questo è il motivo per cui sono qui … »
Ci sarà il sequel di Vitriol?                                                                                                                  
«A dire la verità non losappiamo se ci sarà un sequel. Lasciare il finale aperto era un’idea che a me allettava tanto da amante del cinema. Se Vitriol diventerà un cult e riusciremo a realizzarne un sequel, è troppo presto per saperlo, dipenderà da dinamiche legate al successo del film e agli incassi.
Ciò che è certo è che la mole di informazioni sull’argomento è talmente vasta che si potrebbe scrivere non una trilogia, ma un’intera saga. Vitriol è un film estremamente sperimentale e questo lo dobbiamo alla tenacia di tutti coloro che vi hanno lavorato.
Rifare un progetto del genere prevede una maggiore consapevolezza di quelle che sono le difficoltà di un secondo capitolo per cercare di offrire qualcosa di inedito.
Adesso non possiamo dire se ci sarà un secondo capitolo. Per ora attorno a noi questa storia già continua e noi possiamo solamente aspettare».
(Foto: scena di Vitriol)

Francesca Mancini