La triste storia principessa Mafalda

Mafalda di SavoiaMafalda di Savoia, secondogenita di Vittorio Emanuele III re d’Italia il 23 settembre 1925 sposò al castello di Racconigi, Torino, il principe tedesco Filippo d’Assia Coburgo- Philippistad, nipote dell’ultimo imperatore tedesco Guglielmo di Prussia.
Mafalda era la principessa più Savoia della famiglia: fragile e gentile, priva di spavalderia, non amante di battute di caccia, di cavalli, di scandali come altre principesse reali d’Europa.
Al suo matrimonio nella sala cinese del castello furono presenti la regina madre Elena di Albania, i principi di Grecia, di Romania, di Jugoslavia, di Bulgaria, il cavalier Benito Mussolini, primo ministro italiano, importanti gerarchi fascisti, ministri, nobiltà, ambasciatori esteri, il nunzio pontificio.
I fotografi immortalarono Mafalda con il bellissimo vestito bianco nuziale dal lungo strascico. Mafalda e Filippo partirono per il viaggio di nozze per l’Austria, Germania e Bulgaria. Al rientro in Italia, la coppia soggiornò per lunghi periodi a Roma a villa Polissena.
Il principe Filippo d’Assia, già colonnello dell’esercito imperiale germanico, nel 1933 divenne generale di brigata delle SS naziste del generale Himmler e quindi prefetto della provincia tedesca di Assia Nassau fino al 1942. Infine ambasciatore di Bulgaria a Berlino, su incarico del cognato re Boris III.
Mafalda con i 4 figli era a Roma quando il consorte si recò con il cognato da Hitler, che valutava se confermare l’alleanza della Bulgaria con la Germania o passare con i russi. Sul fronte russo, infatti, sin dal 1941 le divisioni bulgare, affiancate alle truppe romene, ceche, italiane e tedesche venivano sopraffatte dai russi e dal freddo terribile.
Il 28 agosto 1943 la principessa Mafalda, scortata dal conte italiano Avogrado di Vigliano, partì in un pullman con fasci littori e svastiche impresse sulle fiancate per la città di Sofia per andare a trovare la sorella Giovanna, regina di Bulgaria.
Erano momenti delicatissimi: re Boris era indeciso se proseguire la guerra accanto alla Germania. Mafalda quando arrivò a Vienna seppe che il cognato era morto in circostanze misteriose. Infatti la sorella Giovanna affermava che il marito non era morto per attacco cardiaco ma avvelenato con l’ossigeno di una bombola con cui era stato soccorso dopo uno strano malore occorsogli in aereo mentre tornava in patria dalla Germania. Il suo aereo era anche sfuggito ad un attacco della contraerea tedesca.
Mafalda giunse a Sofia dove rimase 5 giorni dando supporto alla sorella non solo morale, ma anche appoggiando pubblicamente le sue tesi sulla fine sospetta del marito. Anzi, le consigliò di allearsi con i Savoia, che dopo la caduta del fascismo e l’arresto di Mussolini del 25 luglio 1943, pensavano di trattare un armistizio separato con gli alleati angloamericani.
Mafalda ripartì da Sofia il 7 settembre 1943 appena Sinaya, regina madre di Bulgaria, alle 3 di notte le riferì che l’8 settembre l’Italia aveva firmato l’armistizio separato con gli angloamericani.
Riparò a Budapest dove seppe che il governo italiano avrebbe messo a disposizione un aereo per il rientro in Italia. Sabato 12 settembre atterrò a Pescara, accolta dal colonnello Martinetti Bianchi, che l’avvertì che la famiglia reale e lo Stato Maggiore erano fuggiti da Roma per Brindisi. Erano transitati per Pescara solo 48 ore prima.
Mafalda raggiunse Roma per ricongiungersi con i propri figli, che riabbracciò in Vaticano il 22 settembre, ospiti del vescovo di Brescia Montini, che vent’anni dopo sarebbe diventato papa Paolo VI.
Tornò dunque a villa Polissena dove trovò l’invito dell’ambasciatore tedesco di recarsi nella sede diplomatica per ricevere alle 11 una telefonata di suo marito da Berlino. Lì aspettò inutilmente per ore in corridoio su un divano, non sapendo che in realtà Filippo d’Assia era stato già stato internato nel campo di Flossemburg.
Infine venne accompagnata al cancello dove l’aspettavano due gentili SS con sole due valigie di abiti che l’accompagnarono all’aereo per Buchenwald, dove dissero che l’aspettava suo marito.
Fu così che Mafalda venne internata nel campo di concentramento. Dapprima venne rinchiusa nella baracca n. 15 per prigionieri di riguardo. Da lì scriveva ai suoi familiari, ma la sua posta non fu mai spedita. La principessa trascorreva il tempo curando il giardino fuori la baracca. Undici mesi di prigionia, con i pochi vestiti cha aveva portato da Roma. I suoi aguzzini tedeschi la chiamavano signora Weber.
Nell’agosto 1944 durante un’incursione area fu colpita la baracca n 15, che crollò uccidendo vari prigionieri. Mafalda di Savoia rimase ferita al braccio sinistro.
Venne estratta da sotto le macerie da prigionieri italiani, i capelli bruciacchiati, il braccio sinistro penzoloni, piagato e sanguinolento, con grave contusione e ischemia e scottature di secondo grado. La circolazione del sangue nell’arto era in pericolo
Mafalda gridava: «Italiani io muoio. Ricordatevi di me: sono Mafalda di Savoia, sono vostra sorella italiana, aiutatemi! Muoio innocente come tanti in Italia … »
Alle 16 fu trasportata nella casa delle prostitute prigioniere e affidate alle cure della kapo del campo Irmar Dusedau. Schernita da SS e prostitute e poi curata alla meno peggio da qualche donna pietosa. Dopo due giorni si manifestò la cancrena, ma i suoi aguzzini non la portarono all’ospedale del campo, nonostante le proteste delle prostitute che l’assistevano.
La sera del 28 agosto 1944 Schiedlausky, medico e direttore dell’ospedale da campo la fece ricoverare quando già era in stato semicomatoso. Secondo il rapporto steso dal medico triestino Fausto Pecorari, prigioniero di guerra divenuto nel ’45 vicepresidente dell’Assemblea costituente, dopo 15 minuti di inspiegabile attesa fu sottoposta ad un intervento chirurgico di mezz’ora per l’amputazione del braccio.
Fu dunque riportata ancora addormentata nel prostibolo alle 21.30 senza alcuna assistenza medica. Non si svegliò più: fu trovata morta la mattina successiva dalle prostitute. Venne tumulata a Weimar con il numero 262: dissero che era una donna sconosciuta.
Mafalda di Savoia, 42 anni, sola, abbandonata persino dalla sua famiglia d’origine, i regnanti Savoia,  fu la vittima designata della vendetta hitleriana. Le SS sputarono e urinarono sulla sua bara col disprezzo che provavano per tutti gli italiani traditori.
La salma fu identificata solo nel 1946 grazie ad un ex internato, padre Joseph Tyl, e da sette marinai italiani sopravvissuti al lager nazista e trasportata con gli onori militari a Kromberg. Tra i marinai italiani, c’era il maresciallo silurista Antonio Ariano di Napoli, mio nonno materno.

Michele Di Iorio