La Grande Bellezza?

OscarOvviamente siamo felici che un film Italiano, dopo 15 anni – La vita è Bella di Benigni, l’ultimo – abbia ricevuto questa grande onorificenza. Il film è un bel film, particolare, più per il messaggio che per il film in sé.
Il messaggio è straordinario e attualissimo: «… la bellezza vera vive nell’umiltà, nelle cose semplici, nel sapersi guardare negli occhi, nel veder nascere un fiore, e capire la forza e l’importanza delle radici».
Sembra essere una banalità, ma non lo è.
Un film è prima di tutto Immagini. Le immagini sono espressione di un linguaggio.
In questo film le immagini che si susseguono sembrano immagini viste e riviste di Felliniana memoria.
Sono immagini che contraddicono lo stesso messaggio che il film vuole dare: immagini sofisticate, mai umili, semplici; sono immagini ricercate, raffinate, con tanti rimandi semantici e letterali, ma più nella forma che nel contenuto.
Sono immagini quasi scontate, ad effetto, quelle di Sorrentino. Nella promozione e nel battage pubblicitario non si è mai nascosto l’accostamento al maestro di Rimini.
Quando le realizzava Fellini erano grandi immagini visionarie, poetiche, immagini metafisiche, da sogno, che rompevano completamente gli schemi linguistici cinematografici. Queste di Sorrentino sembrano essere immagini banali, ripetitive, lente e prevedibili, che accompagnano e colorano, contraddicendolo proprio nel territorio dove avrebbe dovuto essere stato esplicitato, nella forma, un messaggio profondamente bello: la sua idea di Bellezza.
La Grande bellezza secondo me non è un film da Oscar. Forse non sarò compreso, lo so. Ma tento lo stesso a spegare il perché.
Io ne faccio un problema di mutazione del linguaggio. Il cinema, come tante altre forme espressive,  letteratura, pittura, poesia, teatro, televisione, sono solo strumenti. Strumenti che, da  da venti anni a questa parte, sembrano piegati alla costruzione di un linguaggio, malato, deviato, vuoto.
Anche questo film, sembra essere una espressione di questo linguaggio malato. Dove si usa retoricamente la denuncia semplicemente per vendere un prodotto. Vendere, l’unico vero imperativo assunto a valore da venti anni a questa parte nel campo dell’espressione artistica e della comunicazione.
Lo so, è un discorso strano, il mio, è come  mettersi a criticare le operazioni letterarie di Saviano con Gomorra e derivati. Non sia mai: ti trovi tutti contro ad accusarti di spocchiosità, di snobismo, di essere il solito radical-chich invidioso dei successi altrui, ecc.
Quello che vedo io è  il libero spirito critico che ormai manca del tutto in Italia. Non si può parlare male o criticare qualche operazione culturale di successo che tutti ti danno addosso.
La cultura malata degli ultimi 20 anni, con un linguaggio televisivo e calcistico,  ha ormai confuso tutto. Nella confusione niente pare credibile, sia le critiche positive sia quelle negative. E guai a chi si permette di criticare duramente un linguaggio comunemente apprezzato da tutti, sei tacciato di chi si atteggia a tuttologo, e di chi vuole trovare per forza il pelo nell’uovo in un sano prodotto di cultura nazional-popolare.
Sorrentino prova ad imitare tutto di Fellini, rimanendo però sulla superficie della sua poetica, estrapolando frammenti di immagine del Maestro alla loro dimensione semantica, facendoli diventare vuoti esercizi formali inseriti nel vuoto. Imitare e non citare. Con la scusa del «Ho fatto mie quelle espressioni» ormai siamo abituati alle imitazioni e non più alle chiare citazioni, che sono altra cosa. È un linguaggio malato che deriva fondamentalmente dal linguaggio degli spot televisivi.
La grande bellezza, è un grande, bello spot pubblicitario sulla bellezza da recuperare in Italia. Uno film sorretto da una forma pressoché perfetta o comunque molto affascinante, che, con la tecnica e con una retorica che è derivata direttamente dal linguaggio della pubblicità, crea consensi internazionali.
Il messaggio pubblicitario è questo: gli stranieri devono vederci così come siamo ridotti da vent’anni a questa parte: un popolo che, nonostante abbia una grande sensibilità, una grande cultura, e vive in luoghi di straordinaria bellezza,  si rifugia in squallidi modi di vita basati su falsi valori, costruiti apposta e imposti alle masse con sofisticate tecniche di persuasione comunicativa.
Ecco: è la rappresentazione di uno stereotipo facile da recepire, da comprendere e quindi da vendere; la rappresentazione di  uno stereotipo paragonabile, a quando si parla di Napoli, alla immagine del golfo, la pizza, il mandolino, la canzonetta, la furbizia del napoletano.
Un ottimo prodotto tecnicamente impeccabile, che si presenta spocchiosamente e come una meravigliosa scatola vuota fatta con materiale formale riciclato per parlare di umiltà, di bellezza e di radici culturali di un popolo. Un prodotto che si vende bene sul terreno sociale dell’ignoranza.
Con terreno sociale dell’ignoranza  non voglio dire  che si vende là dove non si conoscono  i numeri di film che ha realizzato tal o talaltro regista, il suo linguaggio o i suoi riferimenti culturali, le capacità tecniche e quant’altro, piuttosto mi riferisco a quel terreno sociale addormentato, anestetizzato, abituato negli anni ad ignorare i meccanismi di mercato e non solo di mercato ma anche di condizionamenti di costume, di linguaggi e di cultura, che in film come questi sono chiari ed evidenti
È un buono spot, tecnicamente perfetto, come tutti i prodotti culturali di successo nati in Italia da venti anni a questa parte, ma non un film da Oscar. Essere un film da Oscar, dovrebbe significare il meglio che c’è.
E se questo è il meglio che c’è in Italia, devo dire che siamo messi male a linguaggio cinematografico, significa che da Fellini in avanti, fino ad oggi, non c’è stata nessuna vera innovazione linguistica.

                       Mario Scippa