Kumar Pawar: dall’India a San Felice

I capannoni crollati

 
La mattina, appena sveglio, poco prima che l’orologio puntato sulle sei suonasse, si disse, come al solito, quasi meccanicamente:”L’ho fregata”. Ma subito si ricordò del terremoto. Il venti c’era stata una scossa forte, ma forte assai; l’epicentro, così gli era stato detto, era a Finale Emilia, a una decina di km da dove stava la fabbrica, e da qui,dove abitava con la famiglia, a San Felice Panaro. Ma era alle sei della mattina di domenica; si stava tutti a casa.
Nel sonno, negli ultimi istanti prima di svegliarsi, aveva visto e sentito come se il figlio di Brahma l’Invincibile, il Dio Agni, che è Padrone del  Fuoco, si fosse mosso e avesse saettato, muovendo quei terribili occhi, in una smorfia di rabbia verso gli uomini  e stesse sputando dalla bocca e dalle mani fuoco e vampe. Fuoco e vampe che dalle profondità della terra hanno smosso il Mondo, e tutto tremava.
Si era svegliato di soprassalto, letteralmente invaso dal un terrore senza nome, fradicio di sudore. Poi, mentre tutto oscillava intorno, niente stava fermo, si era ritrovato nella sua stanza, nel suo letto si rende conto a fatica di stare a guardare le cose attorno a lui; e finalmente vede  anche sua moglie Ashwariya. Aveva  gli occhi sbarrati. Senza nemmeno guardarsi, subito il loro pensiero è ai due figli, la più piccolina dei quali dormiva ancora placidamente, solo si era mossa un po’. Vederli, prenderli e uscire sulle scale e scendere giù nel cortile, è stato un attimo. Anzi, nemmeno si ricorda come si sia trovato giù con gli altri, con i figli in braccio: ma tutti con le facce ancora imbambolate di sonno; un attimo dopo, invece, completamente, drammaticamente svegli.
Per tutti questi giorni  aveva cercato di ricordare esattamente cosa avesse fatto per quegli istanti; ma non riusciva a ad analizzare quei pochi , anzi pochissimi momenti: forse erano volati, come degli angeli, loro coi figli in braccio. L’unica cosa che ricordava ancora con terrore era la maschera furibonda del Dio Agni, quella del sogno. Quel ricordo, quell’immagine veniva a trovarlo, anzi lo assaliva  quando meno se l’aspettava, anche la notte, in questi nove giorni.
Cercava di dare coraggio alla Moglie, e anch’essa cercava di darsi coraggio, e qualche bel sorriso è stato fatto apparire sul suo volto, e quando avveniva sentiva anche il suo cuore rischiararsi: soprattutto quando stavano con i bambini. Il più grandicello a scuola aveva capito e non aveva capito: per lui la cosa importante era stato il giorno di vacanza, “uno solo”, gli aveva detto la maestra, “perché la scuola non era stata danezata ezzessivamente ”, così riportava, tra errori di ascolto e inflessioni dialettali, che tanto stupivano suo padre; che a volte si diceva:“Ma allora non è più indiano, se parla come questi  emiliani”. Un po’ lo faceva ridere e se ne compiaceva, perché vedeva il figlio pronto e intelligente, circondato da amici che gli volevano bene; un po’ ne aveva paura, perché significava perdere ogni contatto con la sua adorata Ushkuamlikut, dove ancora viveva la sua famiglia, a cui era visceralmente legato. Anzi, il solo pensare di esserne abbandonato lo metteva in una tristezza che rasentava l’abbattimento.
L’unico che lo capiva, da questo punto di vista, era Muhamad (Azaar) il marocchino compagno di  fabbrica,un po’ più anziano di  lui di circa sei anni (lui ne aveva trentuno). Anche lui era stato costretto a lasciare la sua amata Rabàt. Benché avesse diversi parenti in zona,come lui del resto, tutti che lavoravano nelle numerose fabbriche, parlava sempre della sua città e della sua famiglia. Forse, proprio grazie a questo comune sentire, lui induista e l’altro musulmano, erano diventati amici : qui gli pareva che le distinzioni di religione, di razza non avevano quasi più senso. Tutti loro che lavoravano in questo paese straniero, si sentivano come “sospesi tra cielo e terra”. Da una parte c’era la strana legislazione, per cui diventavano “clandestini” nell’istante esatto in cui, per una qualunque ragione, non lavoravano più, anche se temporaneamente; dall’altro il fatto che le loro esistenze, e soprattutto quelle dei loro familiari e figli, erano profondamente legate a questo territorio, a questa gente.
Magari l’unica distinzione poteva essere il fatto che lui era divenuto Caporeparto: ma nemmeno poi tanto, perché era una persona equilibrata, che si faceva ascoltare, per la calma  con cui ragionava. Ed era pure l’unico cui parlava dei suoi sogni e delle sue paure: anche lui aveva i suoi Jinn, e anche lui era attraversato dalle apura; e pure più di lui. Però da poco nominato ad un posto di maggiore responsabilità, pensava che esternarle troppo gli avrebbe fatto perdere la fiducia dei padroni. E proprio entrando in fabbrica gli aveva detto che era apparso in sogno direttamente il Gran Padre Brahma che aveva fermato Agni e l’aveva guardato diritto negli occhi: era come se, qualunque sarebbe stato il suo destino ,gli avrebbe dato la forza di affrontarlo con serenità Tutti questi pensieri affioravano e scomparivano, come le onde del Sacro Fiume, alla sua mente, mentre la mattina del  29 maggio varcava la soglia della Meta, la sua fabbrica.
Alle nove la micidiale scossa butta giù il suo come numerosi altri Capannoni industriali, come fossero d cartone: muoiono 17 persone tra cui Kumar e Muhamad, nella zona   di Mirandola, Medolla e Cavezzo, il nuovo epicentro del sisma.
Francesco “Ciccio” Capozzi