Incontro con Wim Wenders


NAPOLI – All’ingresso di Villa Pignatelli alcuni fotografi accerchiano un uomo. Ha una giacca un po’ fuori moda, delle scarpe da ginnastica blu elettrico e dei grandi occhiali rotondi. È raffreddato e tossisce spesso, inciampa anche un paio di volte. Sembra a suo agio, però, sorride.
Oltre 40 anni di carriera cinematografica, un Leone d’Oro al Festival di Venezia, un Orso d’Argento a quello di Berlino, un Gran Premio della Giuria di Cannes e un Oscar, e il regista tedesco Wim Wenders inciampa anche un paio di volte. Può sembrare una cosa irrilevante, anche tendenzialmente idiota da notare ma da questo emerge una strana umanità,  certamente l’umanità che non ti aspetteresti di ritrovare in un genio. Magari mentre eri a casa sul divano a guardare “Paris, Texas” e ammirarne la straordinaria fotografia devi aver pensato: «Questo qui deve nutrirsi di nettare e ambrosia» e a vederlo dal vivo ti stupisci che possa inciampare. Legittimo.
Non sembra neanche di trovarsi di fronte ad un artista di fama mondiale. Non solo perché lui rappresenta l’altro lato della celebrità e cioè l’autore dall’altra parte dell’obiettivo, esponente, per dirla in una maniera snob ed utilizzare un’orrenda definizione, di un cinema d’essai, e neanche perché non è in ritardo ma addirittura in anticipo. Ciò che stupisce è, invece, una straordinaria semplicità e disponibilità, da uomo che al servizio del pubblico mette la sua creatività individuale e il suo estro più onesto, intellettualmente onesto.
Wim Wenders si siede, al suo fianco c’è una traduttrice di madrelingua tedesca e la curatrice della mostra fotografica “Appunti di viaggio. Armenia Giappone Germania”, Adriana Rispoli.
Inizia a parlare in inglese, viene fermato. La traduttrice traduce dal tedesco. Ricomincia quindi a parlare inglese, se ne rende conto dopo un po’, ride e si scusa.
Si interrompe ogni tanto per versare dell’acqua nel bicchiere che ha davanti, ne versa anche un po’ in quello della traduttrice. Parla con estrema lentezza, come se le parole non potessero rappresentare quello che ha in mente, come se ne dovesse coniare di nuove per spiegarsi meglio.
Parla della mostra fotografica, dei luoghi in cui ha viaggiato: «Quando viaggio non porto con me mappe o cartine. Devo essere completamente libero nell’esplorazione del luogo in cui mi trovo. Quello che mi affascina di più dei luoghi è quello che non si vede, o meglio le tracce di un passaggio di ciò che prima c’era. Tutto quello che si svolge in quel luogo, la sua storia».
Nelle sue fotografie emerge con chiarezza la volontà di rappresentare esclusivamente i paesaggi, non c’è nemmeno una figura umana.
«Quando arrivo in un luogo in cui trovo molte persone, aspetto che se ne vadano tutti. Di solito mi ci reco di mattina presto o di sera quando è molto tardi. Quando ho scattato la foto della ruota panoramica in Armenia (scelta come foto locandina, ndr) c’erano molti bambini lì sul posto perché per loro si trattava di un favoloso campo da gioco. Ho scartato la fotografia perché ho pensato che l’attenzione del pubblico si sarebbe poi focalizzata sui bambini e non era quello il mio intento. Il giorno dopo ritornai in quel campo e ci trovai un pastore con un gregge di pecore. Il terzo giorno ero completamente solo e nella condizione perfetta per scattare la mia fotografia».
L’attività di fotografo è qualcosa che Wenders considera parallela ma non complementare a quella di cineasta. Sostiene, infatti, di recarsi nei luoghi che intende visitare, provvisto o di una macchina fotografica o di un’idea alla base della realizzazione di un film. La differenza sta nel fatto che la fotografia esprime in sé stessa il contenuto e la storia del luogo, mentre prima della realizzazione di un film ci deve essere un’idea che deve trovare un luogo perfetto.
Alla domanda di Adriana Rispoli che gli chiede se mai Napoli potrà essere oggetto della sua indagine fotografica o cinematografica, Wenders non lo esclude, ma non ha un progetto preciso. Chiarisce:
«Sono stato sempre attratto dalle città portuali, come Lisbona, Palermo, Amburgo. I miei lavori cinematografici iniziano con una storia, poi trovo un luogo che possa essere perfetto per quella storia. Dovrei trovare quindi prima una storia per decidere di ambientarla a Napoli. In questo magari mi potreste aiutare». Ride.
Gli viene fatto notare come sia fondamentale la scelta della fotografia analogica rispetto alla digitale e gli viene chiesto di fornirne una motivazione.
«Ogni volta che fotografo paesaggi e persone cerco di registrare tutto quello che vedo e sento, cercando di svelare il segreto del luogo e la sua storia. Quando fotografo i luoghi con l’analogica non so mai se la foto corrisponde alle mie aspettative e di conseguenza non so se sono riuscito a ricreare la storia che in quel momento il luogo stesso voleva raccontare. Aspetto di essere lontano da quel luogo per sentire se ciò che vedo e sento corrisponde a quello che in quel luogo avevo trovato. Con la fotografia digitale, potendo vedere la foto che ho scattato io non riuscirei a vederne e sentirne la storia».
Parla anche di quello che avrebbe voluto fare prima di diventare un regista ed un fotografo: «Mi sarebbe piaciuto fare il pittore. La pittura mi ha insegnato molto di più di quello che ho imparato dalla storia del cinema o della fotografia».
Per tutto quello che ha da dire sull’argomento, a Wenders non basta un’ora e mezza di conferenza tra i flash dei fotografi. Interpella il pubblico, chiede domande, indugia sulle risposte, scherza con i presenti.
Anche quando Adriana Rispoli ritiene che sia sufficiente, temendo di disturbarlo «Ancora una domanda, la penultima» è quello che Wenders spontaneamente chiede, suscitando l’ilarità generale.
Ciò che ti resta dopo sono le considerazioni.
Wenders è un artista eclettico, prolifico ma prima ancora un uomo generoso e modesto, viene da riflettere. Uno di quelli che non smette di interrogarsi, di cercare nuove fonti ed ispirazioni. Uno di quegli artisti che non cercano consenso ma appagamento spirituale, che non hanno alcun pregiudizio e non vogliono porsi limiti e per questo girano il mondo senza una cartina geografica.
Perché « … quando si viaggia molto puoi finire nei luoghi più bizzarri», per citare lo stesso Wenders, e non puoi evitare di perdere l’orientamento.
Il che a volte può significare semplicemente ritrovarlo.
(Foto by Francesca Mancini)

Francesca Mancini