Terra cotta, l'ipocondriaca Materia. Sculture di Emma Chiavarone

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Un'opera di Emma Chiavarone

Quando ho conosciuto Emma Chiavarone la prima cosa che mi ha colpito di lei è stata la sua umiltà.
Non modestia, perché l’artista è consapevole della sua sensibilità, abilità e vocazione quasi naturale a dare, con forza e sicurezza “un’anima alla materia”, ma una naturale umiltà, che si esprime in una grandissima apertura alla conoscenza e con una naturale predisposizione all’ascolto, qualità che sembrano sempre di più perdersi negli ultimi anni tra gli artisti contemporanei, pervasi da presunzioni e da piccoli o grandi deliri di onniscienza.
Tale umiltà si esprime principalmente nella sua opera, in un terreno linguistico oggi spesso messo in discussione: il figurativo.
Come ho già detto in altre occasioni parlando di arte, non amo costruire delle classificazioni (figurativo, non figurativo, ecc.); ho, invece, una visione unitaria dell’arte e vedo e vivo l’artista come colui che si sforza di mettere in forma una idea con la materia.
E quando poi questa idea prende forma e parla al mondo con il suo linguaggio,  quando sento che esprime qualcosa in più a quello che consciamente era nell’idea dell’artista stesso, ovvero quando l’opera riesce a costruire un rapporto empatico con il fruitore a prescindere da ciò che ha spinto l’artista a realizzarla, mi rendo conto di essere di fronte all’arte, all’arte vera, quella con la A maiuscola, che non ha bisogno di essere classificata per genere.
Ed è il caso delle sculture di Emma Chiavaroni.
Immagini che già dalla scelta della materia – terracotta, terra bruciata dal fuoco- simbolicamente mi riportano alla nostra madre terra, alla terra partenopea, terra bruciata dal fuoco che vive nelle sue stesse viscere.
I suoi personaggi, i suoi personali fantasmi, dalle pose classiche, sono immersi sempre in una dimensione a-temporale ma con tutti i riferimenti precisi alla contemporaneità. Sono profili ed espressioni della nostra storia, dell’antica Grecia e di tutta una storia antropologica della popolazione partenopea.
Sono personaggi rintracciati e portati alla luce nei volti delle persone a lei care: il padre, il nipote, la mamma, l’amica di sempre.
Il ritratto è per lei un pretesto per costruire sapientemente, con estrema abilità e conoscenza tecnica della materia scultura, una forma moderna che affonda le sue radici nella millenaria storia della sua terra: Napoli.
Lei ama molto i grandi scultori napoletani dei primi del novecento, a partire da Vincenzo Gemito, e i riferimenti al maestro non mancano nelle sue sculture.
Come Gemito, anche la Chiavarone aggiunge un tassello, infinitesimo, alla narrazione attraverso la scultura di una forma classica che è in noi napoletani.
Una forma che ci portiamo tutti dentro ed è la risultante di miti, credenze, paure, luce, buio, acqua, fuoco, orizzonti, bloccati e chiusi, odori e puzze, miseria e nobiltà, odio e amore: Napoli.

Mario Scippa