In memoria di Beatrice Cenci

Beatrice Cenci in prigione. Quadro di Achille Leonardi, XIX secolo
Beatrice Cenci in prigione. Quadro di Achille Leonardi, XIX secolo

ROMA – È la mattina dell’11 settembre 1599: piazza di Castel Sant’Angelo a Roma è gremita e nell’aria afosa c’è l’odore della morte e del sangue. La fanciulla più bella dello Stato Pontificio, la sedicenne Beatrice Cenci è stata condannata a morte insieme alla matrigna Lucrezia Petroni e al fratello Giacomo. Il fratello minore, Bernardo, è stato miracolosamente risparmiato, ma condannato a remare per sempre sulle galere pontificie e costretto ad assistere all’uccisione dei suoi familiari. Più volte, di fronte alle orribili scene, ha perso i sensi. L’accusa è di parricidio. L’esecuzione delle due donne è avvenuta per decapitazione, mentre Giacomo è stato ucciso da brutali torture e poi squartato. Nessuna richiesta di clemenza da parte di principi, cardinali, di grandi avvocati, né la richiesta di pietà e la profonda disapprovazione del popolo romano ha dissolto Clemente VIII dal suo proposito.

Il Papa ha così comunicato al governatore di Roma Ferrante Taverna: «Noi vi rimettiamo la causa dei Cenci affinché la giustizia sia fatta a vostra cura e senza indugio». Clemente VIII ha pregato per la salvezza dell’anima di Beatrice ed ha atteso il segnale – un colpo di cannone da Castel Sant’Angelo – che lo ha avvertito del momento esatto per poterle impartire l’assoluzione papale maggiore, in articulo mortis.In serata la salma di Beatrice è stata condotta nella chiesa di San Pietro in Montorio e sepolta davanti all’altare maggiore, sotto una lapide priva di nome, in base alle leggi previste per i giustiziati a morte; quella di Lucrezia è stato condotta nella chiesa di San Giorgio; i resti di Giacomo sono stati portati al palazzo del Console di Firenze che si è offerto di accoglierne le spoglie. Beatrice Cenci appartenne ad una nobile e ricchissima famiglia romana, fu figlia del conte Francesco Cenci e di Ersilia Santacroce, e nipote di un tesoriere dello Stato Pontificio; dopo la morte della madre ebbe ricovero presso il Monastero di Santacroce a Montecitorio e ne uscì all’età di 15 anni. In seguito, il padre sposò, in seconde nozze, Lucrezia Petroni, da cui non ebbe figli.

Statua di Beatrice Cenci di Harriet Goodhue Hosmer, 1857
Statua di Beatrice Cenci di Harriet Goodhue Hosmer, 1857

Francesco Cenci fu un uomo violento, dissoluto che compì crimini e nefandezze di cui rimase impunito, per aver corrotto molte persone. Egli percosse e maltrattò duramente la figlia, e si ritiene che, attirato dalla sua giovane bellezza, ne abbia anche abusato sessualmente. Segregò Beatrice e la matrigna a Petrella Salto, in un piccolo castello, chiamato la Rocca, nel Regno di Napoli, dove, malato di rogna e di gotta, si ritirò anche lui, per sfuggire alla legge. La giovinetta, esasperata dalle violenze subite, scrisse una lettera d’aiuto al Papa, mai giunta a destinazione. È possibile che fu proprio la giovane a decidere di uccidere il padre con la complicità dei fratelli Giacomo e Bernardo, della matrigna, del castellano Olimpio Calvetti e del maniscalco Marzio da Fioran. La somministrazione di veleno, poi il tentativo di rapimento da parte di briganti in un’imboscata, fallirono. Così, il conte fu ucciso a colpi di chiodi, uno sul cranio ed uno alla gola da Marzio e Olimpio; fu complice l’oppio somministratogli in una bevanda, che lo fece cadere in un sonno profondo. Il corpo fu avvolto in un lenzuolo e gettato dalla balaustra al fine di simulare una caduta accidentale.

Il 9 settembre 1598 il cadavere di Francesco fu trovato in un orto ai piedi della Rocca e sepolto nella chiesa di Santa Maria, mentre i familiari tornarono nella loro dimora romana. A causa della cattiva fama di cui godeva il conte, nacquero dei sospetti circa la sua morte e venne aperta un’inchiesta che indusse le autorità ad indagare sul reale svolgimento degli eventi. Dopo le prime due inchieste, la prima voluta dal feudatario di Petrella, il duca Marzio Colonna; la seconda ordinata dal viceré del Regno di Napoli, Don Enrico di Gusman; lo stesso pontefice Clemente VIII desiderò intervenire.

La salma fu riesumata e l’esame delle ferite, effettuato da personale medico, escluse la caduta come causa della morte. Inoltre, i sospetti delle autorità giudiziarie aumentarono perché non trovarono sangue sul luogo del ritrovamento della vittima. Fu anche interrogata una lavandaia cui Beatrice chiese di lavare le lenzuola insanguinate, affermando che le macchie erano conseguenza di un’emorragia notturna: la donna dichiarò che la spiegazione non le apparve credibile. Pertanto, i congiurati vennero arrestati: Olimpio, minacciato di tortura, confessò subito, ma venne fatto uccidere da un sicario inviato dai Cenci, affinché non rivelasse altre testimonianze, Marzio confessò, morendo in seguito alle torture subite. Dopo essere sottoposti a terribili martiri anche Lucrezia, Giacomo e Bernardo confessarono, soltanto Beatrice fu l’ultima a rivelare la verità, dopo lunghi e tremendi supplizi. Bernardo e Giacomo furono rinchiusi nel carcere di Tordinona, Beatrice e Lucrezia in quello di Corte Savella.

San Pietro in Montorio in una stampa di Giovanni Battista Falda, 1670 circa
San Pietro in Montorio in una stampa di Giovanni Battista Falda, 1670 circa

Il giudice Ulisse Moscato si occupò del processo ed intervennero due grandi avvocati di Roma, Pompeo Molella per l’accusa e Prospero Farinacci per la difesa. La difesa tentò di dare delle attenuanti a Beatrice Cenci parlando degli stupri subiti dal padre, ma ella non volle mai confermarli. Pertanto, gli imputati furono condannati a morte. I loro averi vennero confiscati dalla Camera Apostolica e messi all’asta a prezzi irrisori. Fu il nipote del Papa, Gian Francesco Aldobrandini, ad acquisire molti beni appartenuti ai Cenci. La triste vicenda della giovinetta ha appassionato e commosso molti artisti e letterati di ogni tempo, ispirando nei secoli l’arte, la letteratura, la musica e il cinema. Nell’anniversario della sua decapitazione, molti giurano di vederla, dall’incedere mesto ed evanescente, aleggiare con in mano la sua testa nel luogo dove ella ebbe la morte.

«Nessun giudice potrà restituirmi l’anima. La mia unica colpa è di essere nata! […] Io sono come morta e la mia anima… non riesce a liberarsi». (parole attribuite a Beatrice Cenci)

Tiziana Muselli