Il racconto: Aurea serenitas

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Ancora un breve racconto di Michele Di Iorio, dove la narrazione si sfuma nei toni onirici di una realtà parallela e trascendente, tra ricordi di esperienze già vissute e strazianti aneliti che albergano tenaci nella profondità dell’anima.                                          
Una lettura a tratti forte, stemperata dalla dolcezza dei rimpianti e nello stesso tempo vivificata dall’ansia della comprensione.
Parole tutte da leggere, da meditare, da riconoscere.

Lo Speaker

Aurea Serenitas

Ricordo che avevo appena 8 anni quando una mattina gelida del novembre del 1965 mi svegliai improvvisamente all’alba nell’avita casa in Napoli, per andare all’antica scrivania della biblioteca di mio padre; sedendomi sotto lo stemma baronale dei San Barbato guardai trasognato il motto araldico familiare Aurea serenitas.
Mi posi dunque a scrivere con una delle penne d’oca e inchiostro di nero di seppia, mentre la mia mano era in preda ad uno strano torpore e quindi soffusa di un lieve calore, alternato a freddo, mentre l’aria gelida ma sopportabile aleggiava tutt’intorno e dentro di me, dandomi una misteriosa sensazione di vertigini.
Come un automa vergai fogli su fogli, velocemente e con un sorprendente distacco interiore da tutta la realtà esterna.
Quando stanco e con il braccio indolenzito mi fermai, grande fu il mio stupore nel rileggere un brano storico di cui al momento non compresi nulla. Eppur avevo scritto con la furia veloce di una mano sapiente
Dieci anni dopo rileggendo quei fogli compresi tutto e pubblicai un libro storico in otto volumi, Historia del Reame delle Due sicilie dal 1734 al 1861 e del Ducato di Parma sotto i Borbone dal 1748 al 1859.
L’anno successivo, dopo aver visitato in gita scolastica l’antro della Sibilla di Cuma, tornato a casa provocai inspiegabili piccoli incendi di carte, tende, giornali, elenchi telefonici, tutti fortunatamente e tempestivamente spenti da mia madre.
All’età di undici anni svuotai un vecchio acquario per farne un formicaio dove imprigionai formiche rosse e costruii una pila elettrica rudimentale; due anni dopo scrissi un trattato sulla strategia militare dell’ottocento e iniziai a fare esperimenti di alchimia in laboratorio e di notte cerchi magici evocativi tra candele, fumigazioni di incensi, recitando formule tratte dal libro egizio dei morti o dal kibalion.
Evitai però in seguito di “farmi comandare” la mano per scrivere in modo automatico e quasi incosciente: cominciai invece a comporre versi d’amore.
Brillai a scuola in materie come storia, letteratura, chimica, con approfondimenti sull’archeologia egiziana ed etrusca.
Il 22 marzo 1971, a 17 anni d’età, mentre ero a scuola cominciai a tremare in modo strano, e lampeggiando con gli occhi convinsi compagni e compagne di classe a “fare filone”; ci dirigemmo verso il vicino Museo di Sansevero e rimirammo il Cristo velato, le macchine anatomiche, la statua del Disinganno, la Pudicizia velata, il soffitto affrescato con la Gloria de Paradiso, la tomba dove non fu mai seppellito il principe Raimondo de Sangro, la cripta della Fenice con il suo laboratorio alchemico.
Quello stesso pomeriggio andai in visita in casa del principe d’Aquino di Caramanico:  con lui scoprii la capacità di far parlare antichi documenti, vecchie carte del passato della famiglia de Sangro.
Guardando dal balcone del piano nobile del palazzo la sottostante piazza San Domenico Maggiore, con la chiesa barocca e l’Obelisco della peste al centro, i palazzi nobiliari e gli antichi ruderi romani, la pasticceria di Scaturchio, avvertii nella casa tenebrose presenze del 1590 …
Sul terrazzo interno e lo scalone del 1718, tra gli affreschi del Celebrano dell’androne  e quelli delle 4 stagioni al piano ammezzato sulla destra del portone … ma vidi anche quelli seicenteschi ormai spariti di Belisario Corenzio … accarrezzando le foglie vive di una pianta, rabbrividii ricordando il giovane principe e agronomo Michele de Sangro, morto nel 1891, centovent’anni dopo la morte solo fisica dell’avo Raimondo …
Il giorno dopo mi scoprii studioso in modo ossessionante di aradica nobiliare e divenni esperto di chimica e di alchimia, di fisica naturale, di zoologia, di kabala, di astrologia,di filosofia ermetica occidentale,di teurgia, di ipnosi regressive, di reincarnazioni …
Nell’ottobre del 1977 a Portici ebbi la fortuna di studiare un ermetista famoso morto nel 1893, che aveva un proprio dono geniale dono di annullare la dimensione tempo-spazio:mi riferisco ad Izar, fedele ai sacri dettami della memonica arte del filosofo Giordano Bruno da Nola, al secolo Pasquale de Servis, il maestro di Kremmerz … al secolo Ciro Formisano.
Un anno dopo per l’inaugurazione di una nuova gilda o lodge associativa in Boscoreale, intitolata a Giustiniano Lebano, visitai per la prima volta – era il 9 settembre 1978 -la famosa Villa di Lebano, morto nel 1910 e seppellito nella reale arciconfraternita dei nobili del cimitero di Torre Annunziata.
Fresco di un seminario di studi di Giurisprudenza dell’Università “Federico II”, mi fece un certo effetto ritrovarmi nella casa di un avvocato famoso, in un ambiente antico, disadorno, quasi abbandonato, un’ ampia sala di colore azzurro dall’alto soffitto dove si trovava una biblioteca di noce con 5000 volumi rari e preziosi e 2033 manoscritti ancor più preziosi, in specie egiziani, di cui nove tomi del manoscritto della Maria del Kremmerz, morto a Nizza nel 1930 e seppellito nel cimitero della Fenice della cittadina francese.
Proseguii nella sala continua dipinta in rosso con un finestrone scardinato e poi per la scalea che portava alle cantine; a lato di esse v’era una grossa anfora romana degli scavi di Oplonti.
Scendendo nelle cantine di Villa Lebano, avevo nelle orecchie il rumore del vento che soffiava all’esterno e le grida strazianti di una donna giovane forse in la vestaglia in preda alle fiamme … una mia visione … doveva essere il 1885 … aveva un bambino ancor vivo ma febbricitante in braccio …
Arrivai nella parte centrale della cantina, nel tratto più oscuro, tra botti di vino e scalini di tufo, aprendo con una grossa e rugginosa e antica chiave la porta della cripta ancor più sotterranea con 12 scranni di pietra levigata posti su un pavimento nero e bianco e un’iscrizione sulla parete di fronte.
All’interno di quella camera di sinedrio – ma di cosa non riuscivo a capire – sentivo il respiro di drago del vicino Vesuvio, il padre vulcanico, il dio protettore e distruttore della Campania, la cui linfa vitale creava vita visibile e invisibile da millenni …
Lo sguardo della mia mente ritornò allora a Calata Sansevero di Napoli, ad un circolo culturale, un’associazione di amici pittori e di scultori habitué della vicina Cappella Sansevero tra polvere bianca di proiezione alchemica … a Napoli, in un sotterraneo riaperto il 21 dicembre 1994, tra cancelli e ossa umane simili al Cimitero delle Fontanelle, ma più antico ancora, tra due candelabri con i ceri accesi. Quanti ricordi, quante ricerche che rivivevo con commosso pianto interno.
E poi, varcavo il cappellone del crocifisso nella chiesa di San Domenico Maggiore, guardando l’affresco del Caravaggio e quello dello stesso soggetto del pittore Battistino Caracciolo, in omaggio alla doppia morte, accompagnato dal suono di una musica seicentesca di Baldassare Vitale da Cremona ripresa poi agli inizi del ‘700 da Pergolesi e nel 1770 col titolo di Marcia del Principe da Mozart in un concerto dato al Palazzo dello Spagnolo ai Vergini davanti alla compiaciuta nobiltà partenopea …
E poi tutto sparisce coi ricordi in me come quel giorno del 2007, quando un vento gelido spazzò via la stanza, spegnendo i fuochi dei due candelabri accesi e apparve la giovane sophia , la conoscenza o la non morte fisica, l’arcano arcanorum

Michel di Iorio