Il film: Un piccione seduto sul ramo riflette sull’esistenza

Un piccione seduto sul ramo riflette sull’esistenzaForse, ma proprio forse, i due venditori tristi, solitari e sfigati di scherzi di Carnevale, Jonathan e Sam, sono i fili conduttori, di questo film (SVEZ-NORV-FRA-GERM, ‘14)  fatto di 39 tableaux vivant che incrociano storia, presente, all’insegna di una depressione esistenziale, ma, come è stato detto, «dal lato comico».
Onestamente, uno spettatore disposto a pagare il biglietto per vedersi un bel film – o che si aspetta sia tale – potrà mai essere attratto da un titolo siffatto? Anche se porta le stimmate di un Premio come il Leone d’Oro, ottenuto a Venezia 14? Non credo.
Però, anche se per nulla accattivante, è un bel film. Anzi, è perfetto. A condizione però di dimenticarci di ogni sintassi hollywoodiana.
Il regista-sceneggiatore è lo svedese Roy Andersson. Vi ha imposto quella coerenza di ricerca stilistica che, in totale accordo con l’ostica tematica scelta, trova la piena rispondenza con le forme adottate che risultano del tutto originali. Sono tratte, e/o ispirate da altri registi nordici o slavi. Alcuni evidenti (come il finlandese Aki Kaurismaki, ad es., ma solo in parte). Altri meno evidenti, e esplicitamente citati dall’autore, come alcuni registi cechi famosi negli anni ‘60-‘70, come JirìMenzel, e Milos Forman – quest’ultimo approdato felicemente a Hollywood.
Questo regista, che ormai ha status di autore, richiama con disinvoltura anche esponenti della scultura e pittura, in particolare gli artisti pop George Segal e Duane Hanson, quelli delle statue-manichini di persone di vetroresina a grandezza naturale. Andersson infatti costruisce ogni inquadratura, e tutte rigorosamente in studio, anche quando sembrano in esterni, con personaggi come da fermo, situati però su una lunghezza focale  molto profonda. Per cui noi vediamo figure in piano medio (a figura intera) davanti a noi – e mai, inflessibilmente mai, in primo piano – con delle figurette sullo sfondo che risultano stranitamente ad esse connesse. Ognuno porta un’esistenza sua propria, convissuta ma  indifferente all’altro, anche magari mentre sta morendo.
È il caso dei primi episodi, che si intitolano proprio  “Incontri con la morte”. Ovviamente è l’uso provetto della fotografia digitale, curata dall’estone Istvàn Borbàs e Gergely Palos, a rendere possibile questo perfetto equilibrio sperimentale visuale-cromatico.
I personaggi si muovono poco: il loro stare fermi non è ieratico, ma coattivo. Risultano inchiodati ai loro ruoli sociali e anche quando esprimono lamentele o ribellioni, lo fanno coinvolgendo tutto l’insieme a loro intorno. È un partecipare corale.
È il caso di alcune puntate “storiche”: quella sul sovrano Carlo XII, colto nell’andare in guerra e nel ritornare sconfitto, mentre passa prima e dopo in un’osteria dei nostri giorni. La totale incongruenza è superata e dialettizzata dal far notare come il grande e sfortunato sovrano avesse aspetti, magari contraddittori, di umanità.
L’altra è lo storia di Lotte, l’ostessa zoppa che, figlia del popolo, reagisce al suo stato con forza e ironia.
O la crudele esecuzione in forno ruotante (ispirato ad un quadro di H. Bosch) di nativi africani ad opera dei colonialisti, mentre alcuni superricchi si godono lo spettacolo. Il tutto accompagnato da un valzerino, più ironicamente malinconico che triste.
È una desolazione esistenziale: non solo non manca il senso dell’humour, ma filtra, accompagna ed esalta i silenzi che accordano i comportamenti tra loro. Perché è un film in cui i silenzi si ascoltano.
Spesso dicono frasi banali, come il tormentone ripetuto ossessivamente più volte – «Mi fa piacere che state tutti bene» – ma è per riempire i vuoti del parlare in modi insensati. Quindi c’è un “oltre”-uomo che è come invocato dalla nientezza che circola in quel fare senza far nulla, come è nei due rappresentanti, soli ma sostanzialmente solidali. Oppure come quelli in attesa di un mercoledì che si trasformi in un altro giorno, come nel siparietto finale alla fermata. Un’umanità profonda che il regista angosciosamente cerca al didentro di queste forme, che appaiono, nella contemporaneità del tutto apparentemente esternato, disperatamente sole.
Per quanto socialmente sia forte il sostrato tematico, non si può non pensare al cinema metafisico di Ingmar Bergman, il Maestro con cui Andersson, in gioventù con una forte propensione al documentarismo impegnato, ha conflitto pubblicamente.

Francesco “Ciccio” Capozzi